Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 febbraio 2017, n. 4271

Licenziamento - Per giusta causa - Dipendente postale - Vendita di marche da bollo - Omessa autorizzazione

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 4 febbraio 2014, la Corte d'Appello di Milano, confermava la decisione resa dal Tribunale di Lodi, e rigettava la domanda proposta da D.D.L., nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al primo per motivi disciplinari dati dall’aver disposto senza autorizzazione la vendita nell'ufficio postale da lui diretto di marche da bollo.

La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa, disattesa l'eccezione di inammissibilità del ricorso in appello, ritenuto nel merito la sussistenza in relazione alle caratteristiche oggettive e soggettive della condotta, non priva di rilevanza penale, ed al ruolo direttivo ricoperto dall'interessato, la sussistenza dell'invocata giusta causa di recesso.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il D.L., affidando l'impugnazione a quattro motivi cui resiste, con controricorso la Società, che ha poi presentato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare un vizio di motivazione, lamenta l'incongruità logica della valutazione operata dalla Corte territoriale in ordine alla ricorrenza nella specie dell'invocata giusta causa di recesso non avendo la Corte stessa dato rilievo alla diversità della condotta tenuta dal ricorrente rispetto all'ipotesi avuta presente in sede valutativa della vendita non autorizzata di marche da bollo.

Con il secondo motivo la denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 39 del DPR n. 642/1972 è predicata in relazione all'applicazione del divieto ivi previsto della vendita non autorizzata di marche da bollo all’ipotesi, non contemplata dalla predetta norma, della detenzione delle stesse successiva all'acquisto da rivenditore autorizzato e della conseguente cessione a terzi al medesimo valore d'acquisto.

Il terzo motivo è inteso a denunciare un vizio di motivazione in relazione all'omessa o pronunzia della Corte territoriale in ordine alla prova offerta dal ricorrente circa l'autorizzazione dallo stesso ricevuta dai propri superiori gerarchici ad operare, in difformità dalla circolare aziendale, detenendo e cedendo ai clienti marche da bollo.

Il quarto motivo reca la denuncia di un ulteriore vizio di motivazione in relazione all'omessa pronunzia della Corte territoriale in ordine alla prova offerta dal ricorrente circa la riconducibilità ai compiti propri del personale degli uffici postali della verifica della sussistenza delle marche da bollo sulle domande di permesso di soggiorno presentate agli sportelli e, cosi, sulla funzionalità dell’iniziativa del ricorrente a favorire l’agibilità dell'attività dell'ufficio.

In sostanza, l'impugnazione nel suo complesso ruota intorno alla tesi per cui la Corte territoriale avrebbe erroneamente fondato il proprio giudizio in ordine alla ricorrenza nella specie dell'invocata giusta causa di recesso sulla riconducibilità della condotta addebitata al ricorrente all’ipotesi di illecito prevista dall'art. 39 del D.P.R. n. 642/1972 e data dalla vendita di valori bollati in assenza di autorizzazione amministrativa, quando, invece, il comportamento tenuto dal ricorrente si concretava al più nella mera detenzione di marche da bollo acquistate da rivenditore autorizzato e successivamente cedute a terzi al medesimo valore d'acquisto (si trattava infatti, a detta del ricorrente di marche da bollo tenute a disposizione di stranieri avviati all'ufficio da un associazione volta all'assistenza degli extracomunitari per il completamento delle relative pratiche presentate agli sportelli sul presupposto che rientrasse nei compiti degli addetti una verifica in tal senso), ipotesi questa non contemplata dalla norma predetta e, pertanto, priva di quel carattere di illiceità idoneo a giustificare il recesso.

Sennonché, posta in questi termini la questione, l'impugnazione, con riferimento a tutti i quattro motivi su cui si articola, si rivela, al di là dei profili di inammissibilità che pure si ravvisano in relazione alla prospettazione di vizi di motivazione non più consentita dalla nuova formulazione dell'art. 360, n. 5, infondata.

In effetti, la pronunzia della Corte territoriale dichiarativa della legittimità del licenziamento intimato al ricorrente fa essenziale riferimento alla violazione da parte del ricorrente, investito di un ruolo direttivo, dei propri doveri di ufficio, attesa la piena conoscenza da parte del ricorrente medesimo della risalente dismissione del rilascio diretto di marche da bollo in favore della clientela ed, altresì, l'estraneità ai compiti dell'ufficio del controllo dell'apposizione delle marche da bollo sulle domande di permesso di soggiorno desunta da documenti aziendali, elementi questi che il ricorrente non ha smentito nella loro veridicità, opponendo soltanto ed in modo del tutto generico di aver chiesto di provare di aver ricevuto, in ordine alla detenzione delle marche da bollo, il parere positivo di due dei propri superiori e di aver ricevuto indicazioni in ordine alla competenza sul controllo da parte tanto degli istruttori incaricati della preparazione a tale servizio sia dalla filiale di Lodi.

Ciò posto, mentre il primo ed il secondo motivo risultano infondati, inammissibili si rilevano il terzo ed il quarto motivo.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500.00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.