Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 ottobre 2018, n. 26190

Tributi - Reddito d’impresa - Accertamento - Riscossione - Condono fiscale - PVC - Processo tributario

 

Svolgimento del processo

 

L'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 88/29/11, depositata il 14.06.2011 dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia. Ha riferito che a seguito di processo verbale di constatazione redatto da funzionari dell'Ufficio nei confronti della A. s.p.a. nel dicembre 2000, era notificato alla società l'avvio di accertamento relativo all'anno d'imposta 1999, con il quale erano rideterminati i redditi ai fini Irpeg ed Irap (richiedendosi maggiori tributi rispettivamente nella misura di € 773.904,47 ed € 84.963,87, oltre € 858.868,34 a titolo di sanzioni).

Nel contenzioso che ne era seguito la contribuente sollevava eccezioni sulla legittimità e tempestività dell'accertamento, nel merito contestava l'indeducibilità di quote d'ammortamento e di costi ritenuti non di competenza, nonché i presupposti per l'irrogazione delle sanzioni.

La Commissione Tributaria Provinciale di Palermo, con sentenza depositata il 6.02.2008, rigettava le questioni preliminari e accoglieva in parte nel merito il ricorso. La sentenza era appellata da entrambe le parti, ciascuna per quanto di propria soccombenza, e la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, con la sentenza ora impugnata, confermava le statuizioni del giudice di primo grado.

L'Agenzia censura con tre motivi la pronuncia:

con il primo per <<omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio - art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. - art. 36 comma 2, a 2, 3 e 4 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - Nullità della sentenza>>, relativamente alla parte in cui era annullata la ripresa a tassazione di quote d'ammortamento, per l'omesso esame di un fatto decisivo prospettato dall'Ufficio appellante, costituito dal difetto di attività del giudice d'appello <<evidente nell'aver trascurato una circostanza obiettiva acquisita mediante atto scritto (il suddescritto motivo di appello), idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione, a condurre con certezza a una decisione diversa da quella adottata e oggetto della presente impugnazione>>;

con il secondo per violazione e falsa applicazione dell'art. 109 (già 75), 2° e 3° comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per l'erroneo riconoscimento della deducibilità di costi ripresi invece a tassazione dalla Amministrazione;

con il terzo per contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., per omissione di pronuncia sulle sanzioni irrogate e, per quanto comprensibile, per la contraddittorietà della decisione sulla deducibilità delle spese legali, notarili e consulenze.

Ha chiesto in conclusione l'annullamento della sentenza.

Si è costituita la società, eccependo l'inammissibilità e comunque contestando gli avversi motivi di ricorso, e ha proposto ricorso incidentale con quattro motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione degli artt. 43, d.P.R. n. 600 del 1973, 8, co. 10, lett. a) della I. n. 289 del 2002 e 1, co. 2, d.l. n. 143 del 2003, per aver erroneamente escluso l'illegittimità dell'avviso di accertamento emesso tardivamente;

con il secondo <<sulla asserita indeducibilità delle spese di certificazione e revisione bilanci. Violazione del principio di correlazione tra costi e ricavi che informa il reddito d'impresa>>;

con il terzo per nullità della sentenza per l'omessa pronuncia sui vizi sollevati dalla contribuente in ordine al procedimento esitato nell'avviso accertamento, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.;

con il quarto <<sulle sanzioni: inapplicabilità delle stesse ai sensi dell'art. 10, comma 3, L. n. 212/2000, dell'art. 6 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e ai sensi degli artt. 8 D.Lgs. n. 546/1996>>.

Ha chiesto pertanto l'accoglimento dei motivi con ogni consequenziale provvedimento.

La A. ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

Alla pubblica udienza del 14 giugno 2018, dopo la relazione, il P.G e le parti hanno concluso. La causa è stata trattenuta in decisione.

 

Motivi della decisione

 

Il primo motivo del ricorso principale è ai limiti della ammissibilità quando non propriamente inammissibile.

Menzionando l'omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., e poi contestualmente invocando la nullità della sentenza con richiamo agli elementi indicati nei nn. 2, 3 e 4 dell'art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992 sul contenuto della sentenza, non è chiaro se la censura si rivolga in definitiva ad un vizio di motivazione oppure ad un error in procedendo implicante la nullità del provvedimento, o ad entrambi i vizi, senza però specificare sotto quali profili e per quali distinte ragioni vengano invocate entrambe le fattispecie.

Né lo svolgimento argomentativo del motivo chiarisce l'equivoco, perché nelle pagg. 18 e 19 del ricorso prosegue una ambigua formulazione tra la doglianza relativa alla assenza di motivazione <<sul fatto controverso tra le parti e decisivo per il giudizio>> e quella sul mancato soddisfacimento delle tassative prescrizioni normative sul contenuto essenziale delle sentenze.

Tuttavia, qualora la formulazione del motivo, pur ambigua, volesse ugualmente ricondursi alla doglianza di un vizio di motivazione, lamentandosi l'omessa valutazione da parte del giudice regionale delle argomentazioni addotte dall'Ufficio a supporto della ripresa a tassazione di costi ritenuti indeducibili, come potrebbe emergere dalla lettura complessiva del motivo, esso è infondato.

L'Amministrazione aveva ripreso a tassazione le quote d'ammortamento relative a costi sostenuti dalla contribuente per la manutenzione di immobili compresi nelle aziende prese in affitto (e in subaffitto) dalla A.. Ciò sulla base della interpretazione dei contratti di affitto (e di subaffitto), che, a detta della Agenzia, derogando convenzionalmente all'obbligo del locatore di provvedere alla conservazione dell'efficienza dell'organizzazione e degli impianti, prevista dagli artt. 2562 e 2561 c.c., perfezionavano la fattispecie dell'art. 14, ult. co. del d.P.R. n. 42 del 1988, che prevedeva in tale ipotesi l'inapplicabilità del co. 1 della medesima norma, disciplinante la deducibilità delle quote d'ammortamento da parte del locatore (e dell'usufruttuario). Negando la società questa deroga contrattuale, nel contrasto interpretativo insorto tra le parti il giudice di primo grado prima, e poi quello regionale, avevano accolto le ragioni della contribuente, riconoscendo pertanto la deducibilità dei costi di ammortamento.

L'Amministrazione sostiene che la decisione sarebbe viziata dall'omessa considerazione delle argomentazioni addotte nelle difese, che se prese in considerazione, avrebbero comportato una decisione diversa.

Deve intanto affermarsi che la critica mossa alla sentenza afferisce alla individuazione della comune volontà dei contraenti mediante l'interpretazione delle clausole contrattuali, che è un tipico accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile solo nei limiti del vizio di motivazione quando ci si dolga della incoerenza e illogicità della motivazione addotta, sicché correttamente è stato invocato il vizio previsto dal n. 5 dell'art. 360 c.p.c.

Va peraltro sempre tenuto a mente che il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà, sussiste quando nel ragionamento del giudice di merito sia rinvenibile una evidente traccia del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti, oppure quando sussista un insanabile contrasto nel percorso argomentativo adottato, che non consente l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass., Sez. 5, ord. n. 19547/2017).

Nel caso in esame la sentenza del giudice regionale afferma che <<...il Collegio, ritiene di dover confermare quanto già deciso dall'escussa Commissione. Si ritiene di dover prescindere dal riferito comportamento (sia pure importante) delle società concedenti (Sitas, Fintur, Semi) che, oltre ad aver fornito i dati contabili all'affittuaria, si sono astenute, nel rispetto dell'art. 102 -comma 8- del TUIR, dal detrarre le quote di ammortamento spettanti alla A. (circostanza, peraltro, non contestata dall'Agenzia delle Entrate). Di contro, non si può non rilevare che i tre atti di affitto di azienda non contengono alcuna deroga alle disposizioni contenute nell'art. 2561 c.c., concernenti l'obbligo di conservazione dell'efficienza dei beni ammortizzabili. Mancando la prova di quanto presunto dai Verificatori....>>.

Questa Corte, con orientamento consolidato, ha reiteratamente chiarito che nell'interpretazione del contratto il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., sent. n. 10891/2016; sent. n. 2465/2015; sent. n. 2074/2002).

Nel caso di specie la sentenza impugnata innanzitutto conferma, con una motivazione per relationem, la decisione del giudice di prime cure. In quest'ultima, nei passaggi virgolettati riportati nel ricorso della stessa Agenzia (pagg. 4-5) si motiva il perché i contratti intercorsi tra i proprietari concedenti degli immobili e l'odierna contribuente affittuaria questa assumeva l'obbligo di conservazione della efficienza dell'organizzazione e degli impianti, a) valorizzando il dato lessicale, b) valorizzando il comportamento concludente delle parti contrattuali, c) interpretando -e sminuendone la portata- i passaggi da cui l'Amministrazione pretendeva dedurre la deroga alla assunzione dei suddetti obblighi. Che a questa motivazione il giudice regionale rinvii con piena coscienza e consapevolezza lo dimostra la circostanza che, dopo aver ritenuto di darne conferma, la CTR interviene comunque criticamente sulla medesima, reputando, ai fini dell'interpretazione dei contratti, di poter anche prescindere dal comportamento concludente delle società locatrici -astenutesi dal detrarre le quote d'ammortamento spettanti alla A., circostanza della quale in ogni caso non nega importanza né che sia incontestata tra le parti di causa-, comunque concludendo che i tre atti di affitto non contengono alcuna deroga alle disposizioni contenute nell'art. 2561 c.c. (e dunque, per quanto riguarda l'affittuario, nell'art. 2562 c.c.).

Trattasi dunque di un accertamento in fatto, relativo alla interpretazione della volontà contrattuale delle parti, esente da vizi logici o errori materiali, sicché, mancando il vizio motivazionale, è inammissibile ogni rilievo sul processo ermeneutico spettante e riservato al giudice di merito. La diversa interpretazione del contratto pretesa dall'Ufficio afferisce ad una diversa interpretazione ermeneutica, cioè ad una diversa valutazione dei fatti, inibita in questa sede.

Con il secondo motivo di ricorso l'Ufficio lamenta la violazione dell'art. 109 (già 75), 2° e 3° comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per l'erroneo riconoscimento della deducibilità di costi, relativi al 1998, ma imputati al 1999 per £ 110.000.000.

Questo motivo per ordine logico va trattato unitamente al secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale la contribuente lamenta, per opposte ragioni, l'errore del giudice d'appello, nella misura in cui ha ritenuto non deducibili costi per £ 120.0. 000, imputati invece all'anno 2000.

La sentenza, con esposizione in verità poco perspicua, sul punto afferma che <<per le spese riguardanti la certificazione e revisione bilanci (£ 120.000.000) la Commissione, rilevato che -dagli atti di causa- dette spese non risultano dipendenti da uno specifico contratto da cui derivavano corrispettivi periodici (art. 109, 2° comma, lettera b del TUIR), non può non confermare la decisione già emessa, stante che le specifiche prestazioni sono state ultimate nell'anno 2000. Viene altrettanto condivisa, in applicazione del principio della competenza, la disposizione impartita dai primi Giudici, circa gli analoghi costi, £ 110.000.000, spesati nel 1998 ma di competenza dell'anno successivo....che devono essere imputati all'anno d'imposta 1999>>.

Entrambi i motivi vanno rigettati perché infondati.

Deve ribadirsi che l'art. 109 cit. dispone che <<i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, ....concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza>>. Il comma 2, lett. b) dispone tuttavia che ai fini della determinazione dell'esercizio di competenza <<i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate>>, ad esclusione di quelle da cui derivano corrispettivi periodici, che concorrono in base alla data di maturazione del corrispettivo.

Nel caso de quo la stessa Commissione, dopo aver escluso che il costo di £ 120.000.000, sostenuto per la certificazione e revisione dei bilanci, non rientrava tra i corrispettivi periodici, ha riconosciuto che le specifiche prestazioni erano state ultimate nel 2000. Confermando la statuizione assunta sul punto dal giudice di primo grado, ha ritenuto pertanto non deducibili i suddetti costi dal reddito dell’anno d'imposta 1999. Ha tuttavia aggiunto, così come avvertito e disposto dal giudice provinciale, che a proposito dei medesimi costi sostenuti per l'anno d'imposta 1998, ma le cui prestazioni erano state ultimate nel 1999, pari all'importo di £ 110.000.000, dovevano essere dedotti nel 1999.

L'argomentazione del giudice regionale è del tutto coerente con la disciplina positiva, trattandosi di spese non periodiche collocate nell'alveo dell'art. 109, co. 2, lett. b) del TUIR, circostanza che le parti non disattendono con le loro rispettive difese. Ne consegue che ogni critica alla pronuncia ed ogni contraria spiegazione e ricostruzione offerta dalle parti è del tutto irrilevante ed infondata.

Il terzo motivo, con il quale si duole della contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., per aver omesso di pronunciarsi sulle sanzioni irrogate e, per quanto comprensibile, per la contraddittorietà della decisione sulla deducibilità delle spese legali, notarili e consulenze, è inammissibile. Quanto alla mancata pronuncia sulle sanzioni perché vi è carenza di interesse, atteso che la sentenza non ha negato le sanzioni, ed inoltre la denuncia di una omessa pronuncia doveva trovare collocazione nel n. 4 dell'art. 360 c.p.c. quale error in procedendo. Quanto al riferimento alle spese legali notarili e consulenze, lamentando anche in questo caso, per quanto comprensibile, l'errore in cui la CTR sarebbe caduta in relazione all'applicazione del principio di competenza, la censura doveva trovare collocazione nell'errore di giudizio di cui al n. 3 dell'art. 360 cit. e non nel vizio motivazionale.

Esaminando infine i motivi del ricorso incidentale, è infondato il primo, con il quale la società sostiene che erroneamente la CTR abbia escluso l'illegittimità dell'avviso di accertamento emesso tardivamente, non trovando applicabilità la proroga biennale dei poteri di accertamento della Amministrazione, previsto dall'art. 10 della I. n. 289 del 2002.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di condono fiscale la proroga opera -in assenza di deroghe contenute nella legge- sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perché raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell'entrata in vigore della legge (Cass., ord. n. 3816/2018; sent. n. 16964/2016; sent. n. 22921/2014; sent. 17395/2010).

Si è in particolare evidenziato che la I. n. 289 del 2002, art. 10, concede agli Uffici finanziari una proroga di due anni dei termini per l'accertamento, fissati dal d.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, (in materia di tributi diretti) e dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, (in materia di IVA), nei confronti dei contribuenti "che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli artt. da 7 a 9" della stessa legge. Le disposizioni richiamate contemplano varie forme di condono fiscale per anni pregressi (rispettivamente, definizione automatica dei redditi d'impresa e di lavoro autonomo, integrazione degli imponibili dichiarati e definizione automatica). Esse non si applicano -per quanto qui interessa- ai soggetti che, come la ricorrente, hanno ricevuto notifica di un processo verbale di constatazione con esito positivo, ossia con accertamento di maggiore imponibile, prima dell'entrata in vigore della norma agevolativa (art. 7 cit., comma 3, lett. c; art. 8 cit., comma 10, lett. a; art. 9 cit., comma 14, lett. a). Secondo la contribuente ciò impedirebbe l'applicazione dell'art. 10 cit. Invece, partendo dalla considerazione che la norma non prevede deroghe, e posto che la legge concede proroga all'Ufficio per l'accertamento nei confronti dei contribuenti "che non si avvalgono" dei benefici recati dalle suddette disposizioni di favore, all'interprete non è lecito distinguere fra soggetti che non intendono e soggetti che non possono avvalersene, poiché l'espressione "non avvalersi", secondo il significato proprio delle parole (art. 12 preleggi), descrive ugualmente gli atteggiamenti di chi non voglia e di chi non possa accedere al beneficio indicato, non essendo specificata nella legge alcuna riserva.

Ne consegue che i poteri di accertamento, e per conseguenza l'atto impositivo, sono stati esercitati con tempestività.

Inammissibile è poi il terzo motivo (il secondo è stato trattato unitamente al secondo motivo del ricorso principale). Con esso ci si duole dell'omessa pronuncia in ordine ai vizi sollevati tempestivamente, con conseguente nullità della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.

La sentenza si è pronunciata anche in riferimento a tali vizi. A tal fine, come riporta la medesima difesa della contribuente, il giudice regionale ha affermato che <<In ordine alle ribadite diverse lagnanze che la società contribuente ha rilevato nei comportamenti dell'Ufficio, la Commissione conferma quanto ritenuto dai primi Giudici, ossia la opportunità di segnalare le descritte irregolarità al garante del contribuente....al fine di assicurarsi l'intervento del predetto Organismo >>.

L'argomentazione è poi ulteriormente sviluppata nel successivo capoverso di pag. 4 della sentenza.

La società sostiene che questa non può essere ritenuta una motivazione. Le affermazioni della ricorrente incidentale non sono condivisibili, perché nella sentenza i capoversi dedicati alle denunciate irregolarità costituiscono una motivazione, neppure apparente. Avverso la stessa nulla impediva alla contribuente di dolersene sotto il profilo dell'errore di diritto o del vizio di motivazione, ciò che invece non ha fatto.

Il quarto motivo è inammissibile. Esso è formulato nel seguente modo <<sulle sanzioni: inapplicabilità delle stesse ai sensi dell'art. 10, comma 3, L. n. 212/2000, dell'art. 6 D.lgs.18 dicembre 1997, n. 472 e ai sensi degli artt. 8 D.lgs. n. 546/1992.>>. Nel successivo sviluppo argomentativo si afferma che era stato chiesto, in via subordinata, la disapplicazione delle sanzioni per le condizioni di incertezza interpretativa delle disposizioni del TUIR. La dedotta eccezione , stante l'accoglimento quasi integrale del ricorso, è stata ritenuta assorbita dai giudici. Quindi sempre in subordine, si ribadiscono le ragioni per le quali le medesime andrebbero disapplicate. Così formulata non è neppure ben chiaro se la contribuente abbia denunciato una omessa pronuncia della Commissione Regionale, oppure se solo subordinatamente all'accoglimento di taluno o di tutti i motivi di ricorso della Agenzia torni a ribadire le ragioni della disapplicazione. La assenza di chiarezza del motivo di ricorso rende il medesimo inammissibile.

In conclusione vanno rigettati tanto il ricorso principale quanto quello incidentale. All'esito del giudizio, stante la reciproca soccombenza, le spese processuali vanno compensate.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese del giudizio.