Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 gennaio 2017, n. 482

Avvocato dell’Inps - Dimissioni volontarie - Diritto alla retribuzione ed al trattamento di quiescenza

 

Svolgimento del processo

 

La Corte territoriale di Milano, con sentenza depositata il 24 aprile 2009, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Como dichiarava non dovuta la rivalutazione sulle somme restituende a P. V., avvocato dell’INPS, inserito nell’apposito ruolo "professionisti" sino al 31 luglio 1997, data delle dimissioni volontarie. Rimaneva ferma la pronunzia di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto al P. il diritto alla retribuzione ed al trattamento di quiescenza corrisposti dall'INPS durante il rapporto di lavoro intercorso con il P., cessato, appunto, il 31 luglio 1997, e l'attribuzione della pensione originariamente corrisposta dall’1 agosto 1997, costituendo i medesimi diritti quesiti, intoccabili per fatti successivi.

Per la cassazione della sentenza ricorre l'INPS sulla base di due motivi ulteriormente illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 378 del codice di rito.

Il P. resiste con controricorso depositando altresì memoria.

 

Motivi della decisione

 

Con i due mezzi di impugnazione articolati l'Istituto ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2126 c.c.; 14 del d.P.R. n. 43/90, come integrato dall’art. 12 del D.L. n. 264/90, sostituito dall’art. 13 del D.L. n. 344/90, convertito in legge n. 21/91; 8 del d.P.R. n. 818/57; 52 della legge n. 88/89; art. 1, commi 260-265 della legge n. 662/96, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la Corte di merito abbia ritenuto che sia per l’ipotesi di maggiorazione della retribuzione percepita, sia per quella relativa al trattamento di fine rapporto ad essa correlato, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, il principio applicabile sia quello dell’art. 2126 c.c., anziché quello del 2033 c.c., sulla base dell’erroneo presupposto della equiparazione della fattispecie a quella del contratto di lavoro invalido, per ciò che attiene agli effetti retributivi del lavoro già prestato. Erroneamente, a parere dell’Istituto ricorrente, la Corte distrettuale ha reputato che la detta norma trovi applicazione pure nel caso di attribuzione di mansioni superiori e che, nella specie (conferimento di I livello differenziato di professionalità i sensi dell’art. 14 del d.P.R. n. 43/90, successivamente annullato), si sia in presenza di una ipotesi di annullamento dell’atto di conferimento di mansioni superiori, equiparabile all’annullamento del contratto prospettato nell’art. 2126 c.c.. Sarebbe, quindi, evidente l’errore di fondo in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado i quali hanno considerato l’attribuzione al P. del I livello differenziato di professionalità come attribuzione anche di altre e superiori mansioni rispetto al c.d. livello iniziale, falsamente applicando l'art. 2126 c.c., e senza considerare, invece, che il caso di specie attiene alla sorte degli eseguiti pagamenti di somme corrispondenti ad una maggiore retribuzione provvisoriamente attribuita ad un pubblico dipendente in base all’esito non definitivo di una selezione concorsuale che, a seguito di un procedimento giurisdizionale svoltosi in contraddittorio col dipendente stesso, sia stato successivamente annullata dal giudice amministrativo con decisione definitiva. A parere dell’INPS. il maggior trattamento retributivo provvisoriamente corrisposto al dipendente pubblico all’esito di una selezione concorsuale ancora soggetta a sindacato giurisdizionale non può in alcun modo assumere la connotazione di diritto quesito e viene meno, con effetto ex tunc, il titolo dei relativi pagamenti, ove il sindacato giurisdizionale sugli atti della selezione concorsuale si concluda con una decisione definitiva ed irretrattabile di annullamento.

L’Istituto sosteneva, inoltre, di essere legittimato a recuperare l’importo indebitamente erogato della quota indebita della pensione a carico del Fondo integrativo aziendale, per tutto il periodo della sua erogazione e, quindi, dal I agosto 1997 al 31 ottobre 2006, ferma restando la recuperabilità integrale per i restanti periodi non ricadenti nella sanatoria di cui all’art. 38 della legge n. 448/01.

I motivi non sono fondati.

Va premesso che, alla stregua dei costanti arresti di questa Corte di legittimità, il riconoscimento del trattamento economico corrispondente alle mansioni effettivamente espletate prescinde dalla legittimità della relativa assegnazione (cfr., Cass., S.U., 105549/08) e che, anche nel caso in cui la promozione sia stata illegittima, troverebbe applicazione l’art. 2126 c.c., in base al disposto del quale "la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione"; per la qual cosa, il lavoratore deve essere pagato per il lavoro svolto nella qualifica allo stesso attribuita, legittimamente o illegittimamente (cfr., pure, Cons. Stato n. 685/06). Inoltre, in caso di recupero derivante dall’annullamento di un inquadramento illegittimo di un proprio dipendente, la Pubblica Amministrazione deve tenere conto del principio di corrispettività delle prestazioni di lavoro subordinato medio tempore espletate e non deve procedere alla ripetizione in caso di mansioni effettivamente svolte (Cons. Stato, Sez. V, n. 2833/01).

La Corte di merito, correttamente sussumendo la fattispecie nella disposizione di cui all’art. 2126 c.c., conformemente all’indirizzo giurisprudenziale di questa Suprema Corte, alla stregua del quale si applica la predetta norma per il pubblico

dipendente anche se abbia svolto attività in violazione di norme imperative, ha reputato, con argomentazioni ineccepibili - una volta accertato l’effettivo svolgimento, da parte del P., delle mansioni superiori di cui si tratta, correlate alla superiore qualifica -, che le retribuzioni percepite per l’attività di fatto svolta ed il trattamento di fine rapporto fossero, appunto, disciplinate dalla norma citata, trovandosi in presenza di un annullamento di un atto di conferimento di mansioni superiori equiparabile all’annullamento del contratto di cui all’art. 2126 c.c..

E dall’applicabilità di tale ultima norma, che rende intangibile sia la retribuzione, sia la pensione che matura alla stregua della retribuzione corrisposta, discende la infondatezza anche del secondo motivo di ricorso, posto che l’art. 2126 c.c. assicura la debenza delle retribuzioni e dei loro riflessi e l’art. 8 del d.P.R. n. 818/57 (ancora vigente in materia di assicurazione obbligatoria), la computabilità dei contributi indebitamente versati che rendono non più indebita la pensione maturata (in base all’art. 8 cit. "rimangono acquisiti e sono computabili agli effetti del diritto alla prestazione assicurativa i contributi per i quali l’accertamento dell'indebito versamento sia posteriore di oltre 5 anni alla data in cui il versamento è stato effettuato"). E nel caso di specie era proprio l’INPS, quale datore di lavoro, che versava i contributi in favore del P. - che l’Istituto considera indebiti inoltre, l’accertamento dell’"indebito versamento", cessato il 1/8/1997 con il collocamento in quiescenza dell’assicurato, è, all’evidenza, posteriore di oltre cinque anni dalla data dell'ultimo versamento contributivo, anche in considerazione del fatto che le nuove graduatorie sono state elaborate dalla nuova Commissione esaminatrice in data 6/2/03 ed approvate dalla Gestione Commissariale INPS con la determina dell’8/4/03. Pertanto, sino a quel momento l’Istituto non sapeva che il P. ne era escluso ed è dunque proprio questa la data dell’accertamento dell’indebito contributivo, successiva di oltre cinque anni rispetto agli ultimi contributi versati nel 1997. Ne consegue che, poiché sono i contributi a fare maturare il diritto alla pensione, una volta che, per legge, i contributi eventualmente indebiti siano "consolidati" per il decorso del quinquennio, sugli stessi matura regolarmente la pensione, stante la loro computabilità agli effetti della prestazione pensionistica.

Peraltro, deve pure sottolinearsi che, contrariamente alla tesi sostenuta dall’Istituto ricorrente, alla stregua dell’art. 52 della legge n. 88/89, espressione di un principio generale di irripetibilità delle pensioni (Cass. n. 328/02), perché la disciplina della sanatoria è globalmente sostitutiva di quella ordinaria di cui all’art. 2033 c.c., le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di "errore di qualsiasi natura" commesso in sede di attribuzione o di erogazione della pensione, ma non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita prestazione sia dovuta a dolo dell’interessato (ipotesi, quest’ultima. che nella specie, non sussiste).

Per tutto quanto esposto, deve concludersi quindi che le doglianze articolate dalla parte ricorrente, in via principale, sotto il profilo di errores in iudicando e, subordinatamente, come generico vizio di motivazione appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza sotto il profilo dell'iter logico-giuridico.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.