Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 dicembre 2016, n. 25745

Rapporto di lavoro - Discussione con il direttore del negozio - Ammonizione scritta - Licenziamento - Violazione delle garanzie procedimentali

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il 17.10.13, D. A. deduceva che il suo datore lavoro M. Z. s.n.c., da cui era stato assunto il 4.6.10, il 15.5.12 gli aveva inflitto la sanzione dell'ammonizione scritta a seguito di una discussione con il direttore del negozio; che vari mesi dopo, senza alcuna preventiva contestazione, lo aveva licenziato con effetto immediato con lettera del 13.3.13; che il licenziamento doveva ritenersi nullo per violazione delle garanzie procedimentali dettate dall'art. 7 St.Lav. e dall'art.225 del CCNL Commercio; che il licenziamento era altresì nullo perché discriminatorio; che il licenziamento era infine illegittimo a causa della insussistenza degli addebiti, e della sproporzione fra pretesi illeciti e sanzione.

Costituendosi in giudizio la società convenuta contestava il fondamento della domanda, rilevando peraltro che il comportamento complessivo dell'A. era incompatibile con il regolare funzionamento dell'attività, ciò costituendo un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Con ordinanza del 13.3.14 il Tribunale annullava il licenziamento disponendo la reintegra del dipendente nel suo posto di lavoro (ritenendo irrilevante l'opzione ex art. 18 S.L., esercitata successivamente al deposito del ricorso di cui all'art. 1, comma 48, L. n. 92/2012), con diritto ad una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Proponeva opposizione la società, resisteva il lavoratore.

Con sentenza del 18.12.14 il Tribunale di Trieste respingeva l'opposizione. Proponeva reclamo la società, resisteva l'A.

Con sentenza depositata il 7 luglio 2015, la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza impugnata, che nel resto confermava, condannava la società a pagare all'A. le retribuzioni globali di fatto maturate dal 20.6 al 24.7.13, dedotto il percepito, nonché, in luogo della reintegra, una somma pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società, affidato a sei motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste l'A. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. -Ragioni di priorità logica e giuridica impongono di esaminare dapprima il terzo motivo, con cui la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1362 c.c., 18, commi 4 e 6 S.L., 3 L. n. 604/66, 414 - 416 c.p.c., 1, comma 48, L. n. 92/2012.

Evidenzia che, non proceduta da precedenti contestazioni scritte, la lettera di licenziamento faceva riferimento nella sostanza ad un giustificato motivo oggettivo (per le irregolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a fronte delle esigenze organizzative del datore di lavoro), sicché la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere la natura disciplinare del licenziamento. La sentenza impugnata non aveva comunque considerato che la violazione dell'obbligo di specifica motivazione del licenziamento comportava una tutela solo indennitaria.

Il motivo, per quanto non esaminato nelle successive censure, è inammissibile. Ed invero, quanto alla natura del licenziamento, la sentenza impugnata, valorizzando logicamente i riferimenti alle precedenti contestazioni (disciplinari) richiamate (seppur genericamente) dalla lettera di licenziamento (riportata per esteso dalla società odierna ricorrente), ed il riferimento ad una condotta colposa e inadempiente dell'A., ne ha fatto discendere la natura ontologicamente disciplinare del recesso, cfr. Cass. sez.un. n. 3965/1994 e successiva conforme giurisprudenza. Trattasi di accertamento di fatto, insindacabile in questa sede in base al novellato n. 5 dell'art. 360, comma, c.p.c.

Venendo pertanto all'esame delle altre censure, si osserva.

2. - Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 18, commi dal 4° al 6°, L. n. 300/70; 12 preleggi; 7 L. n. 300/70.

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne che l'omessa contestazione dei fatti addebitati integri ex se l'insussistenza di tali fatti, ex art. 18, comma 6, S.L. novellato, mentre sarebbe stato suo obbligo accertare la sussistenza degli addebiti oppure la loro punibilità con sanzioni conservative.

Il motivo è infondato posto che, dovendosi ritenere il licenziamento in questione avere natura disciplinare come definitivamente accertato dalla sentenza impugnata, se l'art. 18 comma 6 sanziona l'inosservanza della procedura di cui all'art. 7 S.L. con la sola indennità risarcitoria (compresa tra un minimo di 6 e 12 mensilità di retribuzione), è pur vero che il radicale difetto di contestazione dell'infrazione (elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare, cfr. Cass. n. 1026/15, Cass. n. 2851/06, e costituente espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica, C. Cost. n.204/1982) determina l'inesistenza della procedura (o procedimento disciplinare) e non solo delle norme che lo disciplinano, con applicazione della tutela della reintegra, del resto prevista anche dal comma 6, che richiama, per il caso di difetto assoluto di giustificazione del licenziamento, la tutela di cui al comma 4 dell'art.18 (reintegra ed indennità pari sino a 12 mensilità della retribuzione); tale deve ritenersi il caso di un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebiti che dunque, ancorché teoricamente ipotizzabili, non potrebbero, anche per l'impossibilità di attivazione delle successive garanzie a difesa del lavoratore, in alcun caso ritenersi idonei a giustificare il licenziamento.

Del resto il comma 4 del novellato art. 18, sanziona con la reintegra il licenziamento ontologicamente disciplinare ove sia accertata l'insussistenza del fatto contestato (e non semplicemente addebitato): nella specie il fatto contestato non esiste a priori, sicché, anche sotto tale profilo, ne consegue la reintegra nel posto di lavo, come stabilito dalla sentenza impugnata.

Né risulta pertinente il richiamo, svolto dalla ricorrente in memoria, alle sentenze n.23669/14 e n. 18418/16 di questa Corte.

In esse si è infatti chiarito che l'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Tale pronuncia è stata ripresa, sviluppandone l'effetto applicativo, da Cass. n. 20540/15, secondo cui l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 st.lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della I. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Riprendendo tali principi questa Corte ha quindi affermato che l'assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all'ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell'insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l'applicazione della tutela cd. reale (Cass. n. 18418/16).

Nella specie, come precedentemente notato, non esiste alcun fatto contestato, che dunque non può in alcun modo ritenersi sussistente, non essendo peraltro ipotizzabile, in ambito di licenziamento disciplinare, che il giudice possa indagare sulla gravità di un fatto mai contestato.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 18, commi 4, 5, 6 e 7, L. n. 300/70; 112 c.p.c., 314-416 c.p.c.

Lamenta che la sentenza impugnata non considerò che il lavoratore avrebbe dapprima dovuto denunciare la violazione del comma 6 (violazione della procedura disciplinare) e quindi la carenza di giustificazione del licenziamento al fine di ottenere la tutela della reintegra in base al comma 4.

Il motivo, in parte già esaminato al punto che precede, è infondato, non vedendosi perché il ricorrente, lamentando l'assenza della preventiva contestazione disciplinare, non avrebbe con ciò denunciato al tempo stesso la violazione della procedura disciplinare.

4.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt.: 24 Cost., 112 c.p.c., 7, 18, commi 4 e 6 S.L., 1, comma 48, L. n. 92/12, 5 L. n. 604/66. Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente che la mancata contestazione dell'addebito determini le conseguenze di cui al comma 4 dell'art. 18 novellato, ed inoltre l'inammissibilità delle istanze istruttorie dirette a dimostrare la legittimità del licenziamento.

Il motivo è infondato. Quanto alla prima doglianza essa risulta già esaminata in precedenza. Il mero richiamo, sul punto, alle difese svolte in sede di merito (cfr. pag.56 ricorso), risulta inammissibile in questa sede per difetto di autosufficienza. Quanto alle istanze istruttorie deve rimarcarsi che il ricorrente che, in sede di legittimità, denuncia la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l'onere (nella specie non rispettato) di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire alla S.C. il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso, la Corte di cassazione dev'essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (ex aliis, Cass. sez.un. n. 28336/11).

5.- Con quinto, subordinato, motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., 1, comma 51, L. n. 92/12, mentre con il sesto motivo denuncia la violazione degli artt. 99, 112, 115 e 125 c.p.c., oltre che dell'art. 1, comma 48, L. n. 92/12..

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne ritualmente proposta la domanda di opzione per l'indennità sostitutiva della reintegra formulata dal lavoratore solo in sede di opposizione e non col ricorso introduttivo della lite.

Il quinto motivo è infondato, avendo questa Corte già chiarito che nel rito di cui all'art. 1, commi 48 e segg., della I. n. 92 del 2012, l'opposizione non ha natura impugnatoria ma si pone in rapporto di prosecuzione, nel medesimo grado di giudizio, con la fase sommaria, tanto che il ricorso che la introduce deve contenere gli elementi indicati dall'art. 414 c.p.c. (e non solo quelli di cui all'art. 125 c.p.c.), ossia quelli idonei a delimitare il tema della decisione nel giudizio di cognizione ordinaria (Cass. n. 25046/15), conseguendone la ritualità non solo di nuove deduzioni ma anche di nuove eccezioni (ad es. la decadenza dall'impugnativa del licenziamento). L'opzione, del resto, ai sensi del terzo comma dell'art. 18 novellato, può essere effettuata entro trenta giorni dal deposito della sentenza di reintegra.

Il sesto motivo riproduce per la prima parte la stessa doglianza di cui al motivo che precede. Per il resto la ricorrente, attraverso la denuncia delle ulteriori norme richiamate, ribadisce l'illegittimità dell'esame della richiesta dell'indennità sostitutiva della reintegra, non proposta a suo avviso ritualmente col ricorso introduttivo della lite (art. 1, comma 48 L. n. 92/12), questioni assorbite dalle considerazioni sopra svolte.

6.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.