Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 novembre 2016, n. 23525

Prestazioni pensionistiche - Fondo di previdenza aziendale - Contributi - Società obbligate in solido - Articolo 2112 c.c.

 

Svolgimento del processo

 

A.B., assunto dal febbraio 1975 alle dipendenze della Cassa di Risparmio di Livorno (rapporto di lavoro ancora in corso, quanto meno sino al tre settembre 2009, cfr. pag. 3 della sentenza qui impugnata) e quindi obbligatoriamente iscritto al relativo Fondo di previdenza aziendale, chiese al giudice del lavoro di Livorno di accertare e dichiarare la Cassa di Risparmio (...) S.p.A., la Cassa di Risparmio (...) S.p.A. e la B.P.I. società cooperativa a responsabilità limitata obbligate anche in solido, sulla base di quanto previsto dall'articolo 2112 c.c. nonché dai citati accordi sindacali, all'applicazione nei confronti di esso ricorrente dell'accordo istitutivo del fondo di previdenza aziendale del 3 aprile del 1991, secondo quanto previsto nel relativo regolamento in essere alla Cassa di Risparmio di Livorno alla data del 31 dicembre 2003. Conseguentemente, per l'effetto, chiese di condannare, tra loro in solido, le società convenute al versamento, dal primo gennaio 2004 in avanti, dei relativi contributi al Fondo di previdenza aziendale, nella misura ed alle condizioni di cui all'articolo 5 del Regolamento e di dichiarare le medesime convenute tenute a garantire le prestazioni pensionistiche previste dal Fondo di previdenza aziendale disciplinato dall'Accordo e dal relativo Regolamento del 3 aprile 1991, anche successivamente alla data del 31 dicembre 2003.

Il giudice adito con sentenza del 15 gennaio/5 febbraio 2007, in accoglimento del ricorso, dichiarava che la Cassa di Risparmi (...) S.p.a., la Cassa di Risparmio (...) S.p.a. e la B.P.I. soc. coop. a r. I. (già B.P.L.) erano obbligate in solido all'applicazione, nei confronti dei ricorrenti (B. e altri) dell'accordo istitutivo del fondo di previdenza aziendale del 3-4-1991, secondo quanto previsto dal relativo regolamento in essere alla Cassa di Risparmio (...) alla data del 31 dicembre 2003, e per l'effetto condannava in solido le parti convenute al versamento, dal 1 ° gennaio 2004 in poi, dei relativi contributi di cui all'art. 5 del regolamento, nonché a garantire ai ricorrenti le prestazioni pensionistiche previste dal Fondo di previdenza aziendale disciplinato dall'accordo e relativo Regolamento del tre aprile 1991, anche successivamente al 31 dicembre 2003. Spese secondo soccombenza, liquidate perciò a carico di parti convenute.

Avverso tale sentenza le anzidette società interposero gravame, come da atto notificato il 21 febbraio 2008, per cui, radicatosi il contraddittorio con la costituzione del B., che resisteva all'impugnazione, la Corte di Appello di Firenze con sentenza in data 16 febbraio/8 marzo 2010, in riforma della gravata pronuncia, rigettava la domanda del suddetto, compensando tra le parti le spese di lite per entrambi i gradi del giudizio.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione B. A., con atto di cui alle relate di notifica a mezzo posta in data 8 marzo 2011, affidato a dieci motivi:

1) violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 115 c.p.c. in relazione agli articoli 4 e 10 del regolamento tre aprile 1991 e dell'accordo sindacale 21 marzo 1973, istitutivo del Fondo di Previdenza Aziendale - omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 comma primo numeri 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 19/20 del ricorso);

2) violazione e falsa applicazione articoli 112 e 115 c.p.c. in relazione all'articolo 25 del Regolamento del Fondo in relazione all'articolo 2112 c.c. - omessa insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (articolo 360 numeri 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 21/24);

3) violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti c.c., in relazione all'articolo 25 Regolamento del Fondo e all'articolo 2112 del codice civile - omessa insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 24/27);

4) violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 115 c.p.c. in relazione alla lettera della Cassa di Risparmio (...) del 31 dicembre 2003 - omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 27/29);

5) violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti c.c. in relazione alla lettera della Cassa di Risparmio (...) del 31 dicembre 2003 - omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (artt. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 29/32);

6) violazione e falsa applicazione articoli 112 e 115 c.p.c., in relazione alla lettera della Cassa di Risparmio (...) del 31 dicembre 2003 - omessa insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 32/33);

7) violazione e falsa applicazione degli articoli 2730 e 2735 c.c. in relazione alla lettera della Cassa di Risparmio (...) del 31 dicembre 2003 - omessa insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 33/34);

8) violazione e falsa applicazione dell'articolo 18, comma settimo, del decreto legislativo n. 124/1993, in relazione all'articolo 2117 del codice civile - omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 34/40);

9) violazione e falsa applicazione degli articoli 1372 e 2117 del codice civile in relazione al Regolamento ed accordo originario del Fondo del 3 aprile 1991 - omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 40/42);

10) violazione e falsa applicazione degli articoli 1372 e 2117 c.c. in relazione all'accordo 29 luglio 2004 non sottoscritto dalla DIR.CREDITO - omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. - v. pgg. 42/45). Hanno resistito all'impugnazione avversaria la Società cooperativa Banca Popolare, nonché la Cassa di Risparmio di (...),(...) e (...) S.p.A., mediante un unico controricorso in data 14/16 aprile 2011, poi seguito da memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

Le censure del ricorrente, che possono esaminarsi congiuntamente, attesa la loro connessione (v. anche la reiterazione delle asserite violazioni, sebbene sotto vari profili), appaiono infondate alla stregua di quanto correttamente e motivatamente deciso dalla Corte di merito, le cui argomentazioni assorbono comunque i vari rilievi mossi dal B..

Ed invero il giudice di secondo grado, premesso che l'appellato assunto dal febbraio 1975 risultava ancora in servizio, osservava in via preliminare che il Fondo di integrazione di previdenza aziendale per il personale della Cassa di Risparmio (...) era stato istituito inizialmente con accordo sindacale del 21 marzo 1973, modificato poi dall'accordo in data tre aprile 1991, sottoscritto anche dall'organizzazione (Dir. Credito), cui aderiva il B..

In seguito, era entrato in vigore il decreto legislativo 21 aprile 1993 n. 124, il cui art. 2 aveva previsto la possibilità di istituire forme pensionistiche complementari (per tutto il personale assunto dopo il 28-04-93 veniva istituita una forma di previdenza complementare a "contribuzione definita" e a capitalizzazione individuale, nel senso che i contributi andavano destinati unicamente alla costituzione di un conto individuale da utilizzare per il futuro trattamento pensionistico del singolo dipendente), mentre l'art. 10 aveva stabilito l'esclusività dei fondi a contribuzione definita, imponendo la previsione statutaria di regole che consentissero ai lavoratori, perdenti i requisiti di partecipazione al fondo, di trasferire le quote presso altro fondo o presso un fondo c.d. aperto o di riscattare la posizione individuale.

Quanto alla facoltà di riscatto, in ragione del mancato conseguimento del beneficio, veniva richiamata la pronuncia di questa Corte (Sezione lavoro) n. 17657 in data 11/12/2002, secondo la quale, in tema di previdenza complementare, le tre opzioni stabilite dall'art. 10, D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo "chiuso", trasferimento ad un fondo "aperto", riscatto) in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all'entrata in vigore della legge stessa, si applicano all'intera posizione individuale, che comprende tutti gli accantonamenti previsti dall'art. 8 di detto decreto, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, per i "fondi a capitalizzazione" preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti dei fondi prevedano modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi dalla norma legale (principio peraltro confermato pure da Cass. lav. n. 13111 del 5/6/2007).

Inoltre, la Corte fiorentina osservava che i Fondi in questione non sono costituiti dalla somma di più posizioni individuali, trattandosi di forme di contribuzione ispirate a criteri di solidarietà mutualistica tra gli iscritti, la cui destinazione previdenziale finalizzata all'integrazione del trattamento pubblico non realizza alcun diritto in capo il singolo, quando, come nella specie, questi non sia in possesso del requisiti per poter conseguire le prestazioni. Pertanto, in base al criterio di solidarietà, il versamento di tale contribuzione mantiene la sua destinazione solidaristica nell'ipotesi di inutilizzabilità da parte del singolo. Di conseguenza, non esistendo una posizione individuale, le quote in astratto riferibili al singolo non sono riscattabili, né trasferibili ad altro fondo [cfr. peraltro anche Cass. sez. un. civ. n. 974 - 01/02/1997, secondo cui i trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita, ma, in relazione alla loro funzione previdenziale sono ascrivibili alla categoria delle erogazioni solo in senso lato in relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa. Ne discende la non operatività del criterio di inderogabile proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro, e, più in generale della garanzia dell'art. 36 Cost., in relazione all'art. 2099 cod. civ.. Ne consegue, in primo luogo, che l'autonomia privata non subisce, in linea generale, limiti alla determinazione del quantum dovuto e dei presupposti e requisiti di erogazione di dette pensioni, e, in secondo luogo, che non può ritenersi pertinente - con particolare riferimento alla sospensione del trattamento integrativo in caso di svolgimento di determinate attività lavorative - il vincolo di destinazione delle somme allo scopo pensionistico, posto dall'art. 2117 cod. civ..

V. altresì Cass. Sez. 6 - L, ordinanza n. 10458 del 22/06/2012, secondo cui i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare non hanno natura retributiva, né l’hanno avuta in passato, trattandosi di esborsi non legati da nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa ed esonerati dalla contribuzione A.G.O.; ne consegue che gli accreditamenti per la previdenza integrativa non concorrono a determinare la base di calcolo del trattamento di fine rapporto e dell'indennità di anzianità.

Peraltro, come già chiarito da questa Corte (sezione lavoro) con la sentenza del 26 aprile/4 settembre 2002, n. 12877, l'ordinamento pensionistico non è ispirato, giusta anche la giurisprudenza costituzionale (v. sent. n. 307 del 1989, n. 364 del 1994, n. 388 del 1995, n. 432 e n. 433 del 1999), ad un criterio di precisa corrispondenza tra prestazioni e contributi versati, essendo sufficiente che, per effetto dei contributi obbligatori e volontari, al lavoratore siano attribuite adeguate prestazioni previdenziali, mentre la legittimità costituzionale del normativa non è posta in dubbio dalla mancata considerazione di una parte della contribuzione, sia essa volontaria o effettiva, una volta che l'assicurato, prima della ulteriore contribuzione, abbia già conseguito il requisito contributivo minimo. Infatti, la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 307 del 1989 si è limitata a dichiarare la illegittimità dell'art. 3 della legge n. 297 del 1989, nella parte in cui non prevede che, in caso di prosecuzione volontaria nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti da parte del lavoratore dipendente che abbia già conseguito in costanza di rapporto di lavoro la prescritta anzianità assicurativa e contributiva, la pensione liquidata non possa comunque essere inferiore a quella che sarebbe spettata al raggiungimento dell'età pensionabile sulla base della sola contribuzione obbligatoria, escludendo, invece, l'illegittimità delle disposizioni, che non consentono la ripetizione dei contributi volontari non idonei ad arrecare alcun beneficio all’assicurato, o, in subordine, della loro parte non necessaria a tenere in vita l’assicurazione. Dunque, il giudice delle leggi ha escluso l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che non consentono la ripetizione dei contributi volontari non idonei ad arrecare alcun beneficio all'assicurato o, in subordine, della loro parte non necessaria a tenere in vita l'assicurazione di invalidità].

In ogni caso, la Corte fiorentina ha rilevato, dall'esame degli atti, che nella specie si trattava di un fondo interno, privo di soggettività giuridica funzionante con il sistema c.d. a prestazione definita. Quindi, era corretta l'osservazione di parte datoriale, secondo cui nella nuova situazione i vecchi iscritti formavano una collettività a gruppo chiuso, senza più il finanziamento delle nuove generazioni.

Pertanto, con l'accordo del 31-12-1998 (sottoscritto da FALCRI, FABI, FISAC e da UILCA) era stata istituita all'interno del Fondo un'apposita sezione a contribuzione definita, cui erano stati iscritti i dipendenti assunti in seguito all'entrata in vigore del suddetto decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell'art. 3, comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, vigente dal 28-04-1993), laddove tra l'altro le parti si erano impegnate a proseguire le trattative per la trasformazione dell'intero Fondo "da fondo a prestazione definita a fondo a contribuzione definita".

Il successivo accordo del 29-12-2000 aveva, infatti, istituito una seconda sezione a contribuzione definita, alla quale si sarebbero dovuti iscrivere i dipendenti assunti prima del 28 aprile 1993, che avessero optato per la fuoriuscita dal sistema a prestazione definita.

Quindi, erano intervenuti ulteriori accordi sindacali (il primo, in data 31-12-2003, sottoscritto pure da Dir.CREDITO), con i quali si era convenuto il passaggio al Fondo MULTIPREV del personale della Cassa di Risparmio (...) in servizio al primo gennaio 2004, che non avesse ancora optato per l'iscrizione alla sezione a contribuzione definita.

Allo scopo erano state stabilite le modalità di calcolo attuariale del c.d. zainetto individuale maturato da ciascun interessato al 31 dicembre 2003, secondo il vecchio regime di previdenza complementare, per cui inoltre dai diversi menzionati accordi era stato consentito al personale, in via alternativa: a) di aderire al FONDO MULTIPREV entro e non oltre il 30-09-2004; b) di riscattare la posizione individuale; c) di aderire al altro fondo aperto alla condizioni previste dall'art. 6 dell'accordo in data 29 luglio 2004.

In tale contesto, dunque, la Corte territoriale ha evidenziato che il B. (al pari di altri 13 dipendenti, informati dell'ammontare del suddetto zainetto individuale e delle varie facoltà di scelta) non aveva manifestato alcuna opzione, insistendo quindi per conservare il regime complementare di cui agli accordi del 1973 e del 1991, che la Cassa nel gennaio 2005 aveva comunque formalmente disdettato.

Quindi, i giudici di appello, consideravano irrilevante nella specie la disciplina di cui all'art. 2112 c.c. per quanto verificatosi nel corso dell'anno 2003, poiché la progressiva modifica del regime di previdenza complementare era stata avviata sin dal 1998 e scaturiva dall'esigenza di uniformarsi alla previsioni del d.lvo n. 124/93, senza alcun attinenza con i mutamenti degli assetti proprietari della società (mediante forme d'incorporazione e di cessione di ramo d'azienda nel corso del 2003).

Ribadita, poi, tra l'altro, la possibilità del datore di lavoro d'intervenire a modificare gli accordi aziendali mediante la stipula di nuovi con le oo.ss. maggioritarie, perciò senza la necessità della formale adesione di tutte le sigle, in ragione della strutturale natura gestionale indivisibile di determinati accordi di riassetto delle relazioni in ambito aziendale (fermo restando, d'altro canto, la diversità della questione attinente a diritti già acquisiti dai singoli lavoratori), la Corte distrettuale rilevava che il B. al 31 dicembre 2003 non aveva ancora maturato (per difetto di requisito anagrafico e contributivo) il diritto alla pensione complementare e che nemmeno aveva manifestato la volontà di essere collocato in quiescenza.

Infatti, con il ricorso introduttivo del giudizio l'attore aveva domandato la condanna della Cassa al pagamento dei contributi (secondo il regolamento del 1973) per il periodo dal primo gennaio 2004 in poi, cioè relativamente al tempo occorrente per acquisire il diritto al pensionamento, nonché a garantire il trattamento pensionistico di cui al fondo di previdenza aziendale di cui al regolamento del tre aprile 1973, anche per il periodo successivo al 31 dicembre 2003.

Orbene, nel caso di specie, il concreto assetto realizzato dai successivi accordi collettivi aveva sicuramente rispettato il limite di utilizzo dei Fondi speciale' di previdenza stabilito dall'art. 2117 c.c., poiché non era stata mai prevista alcuna distrazione del patrimonio dallo scopo di destinazione. Anzi, erano state stabilite varie forme di opzione, tali da consentire ai singoli di conservare ed incrementare un capitale individuale. Inoltre, gli accordi collettivi succedutisi nel tempo avevano coerentemente aderito ai nuovi principi fissati dal legislatore per assicurare, senza squilibri, il progressivo passaggio di tutti i dipendenti ad una forma di previdenza a capitalizzazione individuale, donde altresì la correttezza nell'esercitata autonomia collettiva in ambito aziendale.

Peraltro, questa Corte ha già avuto modo anche di affermare (v. sentenza della Sezione lavoro n. 13960 del 19/06/2014) che nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni "in pejus" per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (nella specie, la sentenza n. 13960 in data 08/04 - 19/06/2014, quanto alla presunta violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza, giudicava corretto l'operato del giudice di merito, rilevando come l'accordo collettivo esaminato non avesse inciso sui soggetti che avevano già acquisito il diritto al trattamento pensionistico, risultando ragionevole e rispettoso del dettato normativo di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18, comma 7, secondo cui, in presenza di squilibri finanziari nella gestione di fondi di previdenza complementare costituiti per contratto collettivo, la stessa contrattazione può rideterminare la disciplina delle prestazioni e del finanziamento per gli iscritti al fondo che, alla data di entrata in vigore del citato provvedimento, non abbiano maturato i requisiti prima previsti per i trattamenti pensionistici integrativi.

Inoltre, la suddetta pronuncia richiamava l'affermazione ricorrente di questa Corte, secondo cui il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più sussistente, perché caducata o sostituita da altra successiva. Infatti, le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (ex art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale (in tal sensi v. Cass. 10 ottobre 2007, n. 21234; cfr. altresì Cass. lav. n. 16635 del 5/11/2003, secondo cui il divieto di deroga in pejus, posto dall'art. 2077 cod. civ., è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo, non viceversa, mentre i rapporti di successione temporale tra contratti collettivi non sono regolati dall'art. 2077, ma dal principio della libera volontà delle parti stipulanti, cosicché, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche se in seguito sfavorevoli al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, ovvero di quei diritti che sono già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavorato.

Parimenti, secondo Cass. lav. n. 11119 del 26/10/1995, le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo dei sindacati, ma - salva l'ipotesi di loro recezione a opera del contratto individuale - operano dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro come fonte eteronoma regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale. In senso analogo v. Cass. lav. n. 12751 del 28/11/1992, secondo cui, ferma l’indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, il lavoratore non può, peraltro, pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste, perché caducata o sostituita da altra successiva; infatti, le disposizioni dei contratti collettivi operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, restando la conservazione di detto trattamento affidata all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia).

Orbene, quanto al primo motivo di ricorso, in aggiunta a quanto già evidenziato dalla Corte toscana, va appena rilevato che, contrariamente alle asserzioni del B., non risulta che costui al momento dell'entrata in vigore del dl.vo n. 124/93 (28-04-1993) avesse già maturato il requisito per poter beneficiare delle prestazioni del Fondo, secondo le previsioni dell'originario Regolamento risalente all'accordo del 1991, non essendo sufficiente la sola iscrizione per almeno 15 anni, occorrendo altresì il requisito anagrafico utile ai fini dell'età pensionabile (all'epoca 60 anni per gli uomini e 55 per le donne), per giunta al momento di cessazione del rapporto di lavoro con la Cassa, cessazione peraltro da escludersi in base a quanto pure al riguardo puntualizzato dai giudici d’Appello (dal codice fiscale in atti, relativo al ricorrente, BRLRRG52S22B878C, del resto è possibile desumere la data di nascita 22 novembre 1952, sicché al 28 aprile 1993, il B. era poco più che quarantenne, avendo compiuto 40 anni, 5 mesi e 6 giorni di età).

Parimenti, è infondato il secondo motivo, correttamente essendo stata esclusa nella specie la rilevanza della disciplina di cui all'art. 2112 c.c., atteso che l'unicità del rapporto di lavoro, nonostante gli avvenuti trasferimenti di azienda, con la conservazione dei precedenti trattamenti economici e normativi, non riguarda evidentemente anche la posizione relativa alla previdenza complementare, soggetta ad accordi sindacali, in base alle succitate disposizioni di legge ed alla stregua dei richiamati principi di diritto vigenti in materia, tanto più ove si consideri quanto già rilevato circa il fatto che all'epoca (anno 2003) non poteva considerarsi già acquisito il vantato diritto al trattamento pensionistico.

Le stesse considerazioni valgono, assorbendole, le doglianze di cui al terzo motivo, tanto più che il regolamento del 3 aprile 1991 risulta superato dalla nuova normativa, nonché dai conseguenti successivi accordi collettivi.

Similmente deve ritenersi in ordine al quarto, al quinto, al sesto ed al settimo motivo di ricorso, laddove in effetti il B., invero non cogliendo l'essenziale portata delle argomentazioni contenute nell'impugnata pronuncia, insiste ancora nel pretendere effetti favorevoli per le sue pretese, invocando la disciplina di cui all'art. 2112, con riferimento alla missiva della Cassa di Risparmio (...) data 31-12-2013, diretta ai vari dipendenti interessati, ai quali si comunicava il proseguimento del rapporto, senza soluzione di continuità, richiamando testualmente la suddetta disposizione codicistica ed assicurando quindi il mantenimento dei trattamenti economici e normativi già previsti presso l'azienda di provenienza.

Anche il percorso argomentativo svolto con l'ottavo motivo è infondato, alla luce di quanto sopra osservato dalla Corte territoriale In relazione al decreto legislativo n. 124/1993 ed all'art. 2117 c.c., mancando soprattutto il presupposto del diritto acquisito, non risultando affatto che all'epoca l'attore avesse maturato il diritto al trattamento pensionistico.

D'altro canto, il remoto precedente citato (Cass. lav. n. 6427 - 01/07/1998, secondo cui in sintesi il recesso unilaterale del datore di lavoro da un accordo collettivo aziendale istitutivo di un fondo di previdenza integrativa privo del termine finale non soltanto non può influire né sulla posizione di coloro che, avendo maturato i requisiti ed esercitato il diritto, hanno ormai conseguito il previsto trattamento pensionistico aziendale, né sulla posizione di coloro che hanno maturato i requisiti per un trattamento pensionistico, ma non hanno ancora esercitato il relativo diritto previo il proprio collocamento a riposo, ma non può avere effetto neppure sulla posizione di coloro che, pur non avendo maturato i requisiti per il trattamento aziendale, sono parte della fattispecie a formazione progressiva, costitutiva di capitale in via di accumulo, vincolato a beneficio di tutti gli iscritti al fondo, ai sensi del citato art. 2117), appare anche in contrasto con la più recente giurisprudenza di questa Corte (Sez. Lavoro, sentenza n. 3982 del 19/02/2014), secondo cui le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, intendendosi per tali solo le situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come i corrispettivi di prestazioni già rese, e non anche quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono autonome e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi (v. similmente, tra le altre, la citata pronuncia n. 21234/2007, secondo cui nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti. Nella specie, veniva quindi confermata la sentenza di merito, che aveva negato al lavoratore, il quale aveva rifiutato l'iscrizione al Fondo di previdenza complementare rinegoziato in base ad accordo collettivo, il diritto a beneficiare dei versamenti da parte del proprio datore di lavoro a titolo di contribuzione al Fondo stesso, giacché siffatto obbligo, contemplato dalle preesistenti regole del Fondo, era venuto meno in forza dell'accordo collettivo di rinegoziazione).

Quanto, poi, allo squilibrio finanziario di cui all'art. 18 del citato d.lvo n. 124, parte ricorrente non ha colto che la questione (v. pgg. 6 e 7 della sentenza) è stata superata da parte dalla Corte di merito mediante richiamo della maggioritaria dottrina e giurisprudenza circa la possibilità di modifica degli accordi aziendali esistenti, attraverso la stipula di nuovi con le organizzazioni sindacali più rappresentative in ambito aziendale, laddove d'altro canto B. A. al 31 dicembre 2003 non aveva ancora perfezionato il diritto alla pensione complementare, né aveva manifestato la volontà di essere collocato in quiescenza.

Infine, analoghe considerazioni possono valere in ordine al IX e al X motivo di ricorso, visto che la Corte di merito ha adeguatamente e correttamente motivato sulla irrilevanza dei precedenti accordi sottoscritti anche dall'organizzazione sindacale, cui aderiva il B., ma superati dai successivi. Il ricorrente, d'altro canto, non avendo acquisto, né maturato alcun diritto in proposito, non avendo peraltro neanche esercitato l'opzione di cui si è detto (nel termine all'uopo fissato con l'accordo di luglio 2004), nemmeno può vantare diritti indisponibili dalle parti collettive con la stipula di appositi accordi, per la cui valida efficacia, del resto, non è richiesta l'adesione di tutte le organizzazioni sindacali (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 6959 del 20/03/2013, secondo cui in materia di licenziamenti collettivi, la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare si traduce in accordo sindacale, che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori, direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità. Parimenti sul punto Cass. lav. n. 9866 del 24/04/2007).

Dunque, il ricorso va respinto.

Tenuto conto alterni esiti del giudizio, peraltro iniziato nell'ormai lontano 2005, nonché connotato da questioni non poco complesse, si ravvisano valide ragioni per compensare anche le spese di questo ulteriore procedimento.

 

P.Q.M.

 

RIGETTA il ricorso e dichiara compensate tra le parti le relative spese.