Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 luglio 2017, n. 18184

Hostess di cassa - Licenziamento disciplinare - Fidelity card - Accredito indebito spesa clienti su propria carta punti - Regolamento aziendale - Divieto

Fatti di causa

 

Con ricorso al Tribunale di Sassari del 19.11.2011 M. P., già dipendente della società A. spa con mansioni di hostess di cassa, impugnava il licenziamento disciplinare intimatole in data 25 maggio 2011, a seguito delle contestazioni dei precedenti giorni 7 e 13 maggio, per avere accreditato indebitamente nel periodo dal 5 ottobre 2010 al 5 maggio 2011 sulla propria carta punti (...) l'importo della spesa fatta dai clienti, accumulando punti equivalenti alla somma di € 50, spendibile sotto forma di sconti presso gli ipermercati aderenti al circuito della fidelity card.

Il Tribunale respingeva il ricorso (sentenza nr. 830/2013).

Con sentenza del 12-24.11.2014 (nr. 289/2014) la Corte di appello di Cagliari rigettava l'appello della lavoratrice.

La Corte territoriale rilevava che non era dubbia la consapevolezza della lavoratrice di tenere una condotta vietata dalla datrice di lavoro giacché i testi della società avevano concordemente riferito che il regolamento aziendale, che conteneva il divieto, si trovava affisso in bacheca e che inoltre era affissa una pagina che riguardava proprio il divieto di utilizzo da parte delle cassiere della propria carta punti in occasione dell'acquisto effettuato dalla clientela. Era stato altresì provato dall'interrogatorio formale che la P. aveva partecipato, come le altre cassiere, ad un corso di aggiornamento circa l'utilizzo della stessa carta.

Doveva pertanto escludersi la semplice colpa lieve della lavoratrice.

Il licenziamento appariva altresì proporzionato all'addebito.

La gravità della condotta doveva essere apprezzata non già rispetto alla tenuità del danno patrimoniale (il danno era pari a poco più di 20 euro perché parte dello sconto dei buoni andava a carico del fornitore) ma alla lesione del vincolo fiduciario che ne derivava; la P. aveva reiteratamente e consapevolmente violato il regolamento aziendale e tale fatto, considerata la delicatezza delle mansioni, era idoneo a far venir meno il rapporto di fiducia.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza M. P., articolato in due motivi.

Ha resistito con controricorso la società A. spa. Le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la lavoratrice ricorrente ha denunziato — ai sensi dell'art. 360 nr. 3 e nr. 4 cod.proc.civ. — violazione e falsa applicazione dell'art. 7 statuto dei lavoratori in combinato disposto con gli artt. 2119 cod.civ., 229 CCNL, 1455 cod.civ.

La censura investe la statuizione di proporzionalità del licenziamento rispetto alla contestazione.

La ricorrente ha dedotto la carenza di motivazione in ordine alla avvenuta irreversibile lesione del vincolo fiduciario, evidenziando la tenuità del danno, la assenza di precedenti rilievi disciplinari, il pentimento manifestato e la avvenuta restituzione della carta NECTAR, ancora non utilizzata.

Ha affermato che l'articolo 225 del CCNL di categoria prevedeva diverse tipologie di sanzione disciplinare ( biasimo verbale, biasimo scritto, multa, sospensione, licenziamento); tra le cause di licenziamento indicate non rientrava l'utilizzo non corretto della carta NECTAR ma le gravi violazioni di cui all'articolo 220 del CCNL, commi primo e secondo, nelle quali non era compreso l'addebito contestato. Infine l'articolo 229 CCNL, che si riferiva all'articolo 2119 cod.civ., conteneva una casistica esemplificativa delle ipotesi di licenziamento, ed indicava, tra l'altro, la appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi, fattispecie che il giudice del primo grado aveva ritenuto erroneamente di ravvisare.

La gravità del fatto doveva essere valutata con il criterio di cui all'articolo 1455 cod.civ. ovvero la non scarsa importanza dell'inadempimento, nella specie insussistente.

Il motivo è infondato.

Preliminarmente va dichiarata la improcedibilità delle censure di violazione e falsa applicazione dell'articolo 229 del CCNL; la parte  ricorrente non ha adempiuto all'onere di deposito in questa sede, ai sensi dell'art. 369 co.4 cod.proc.civ., del testo integrale del CCNL — funzionale a consentirne a questa Corte una corretta interpretazione ed applicazione (sulla necessità del deposito della copia integrale del CCNL si veda Cass. SU ., 23/09/2010, n. 20075) — né ha, alternativamente, specificato nell'attuale ricorso di averlo prodotto nelle fasi di merito indicando la sede in cui il documento sia rinvenibile (Cassazione civile, sez. un., 07/11/2013, n. 25038).

Quanto alle ulteriori censure, il giudice del merito ha correttamente fondato il suo giudizio di proporzionalità della sanzione sulla intensità del vincolo fiduciario sotteso alle mansioni di cassiera e sulla gravità, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, di una condotta reiterata, consapevole e volontaria di trasgressione del regolamento aziendale benché esso prevedesse la punibilità della infrazione commessa con il licenziamento. Tale giudizio è esente dalle critiche mosse giacché la tenuità del danno e la mancanza di precedenti disciplinari non sono circostanze in sé decisive, dovendo piuttosto verificarsi se l'inadempimento, complessivamente valutato, sia idoneo ad incidere sulla prognosi di futura correttezza dell'adempimento dell'obbligazione lavorativa.

Né ha pregio la censura articolata in riferimento alla mancata applicazione dell'articolo 1455 cod.civ.

Parte ricorrente sostiene che l'inadempimento del lavoratore debba essere valutato secondo il parametro della non-scarsa importanza di cui al suddetto articolo.

Questa Corte ha ripetutamente affermato, invece (ex plurimis Cassazione civile sez. lav. 25 maggio 2016 n. 10842; Cassazione civile sez. lav. 16 ottobre 2015 n. 21017; Cassazione civile sez. lav. 25 giugno 2015 n. 13162; Cassazione civile sez. lav. 26 ottobre 2010 n. 21912; Cassazione civile sez. lav. 22 marzo 2010 n. 6848 ), che nel licenziamento disciplinare la gravità dell'inadempimento deve esse valutata secondo il parametro più rigoroso dell' inadempimento notevole degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), in senso accentuativo rispetto alla regola generale della «non scarsa importanza» dettata dall'art. 1455 c.c.. Tale parametro è stato correttamente applicato dalla Corte di merito.

2. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto — ai sensi dell'art. 360 nr. 3 e nr.4 cod.proc.civ. — violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod.civ. in combinato disposto con gli articoli 115, 116, 416 cod.proc.civ. e con l'art. 2729 cod.civ. nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 252 cod.proc.civ.

Ha esposto che la società non aveva contestato il fatto che ella aveva ammesso l'addebito solo perché il direttore le aveva assicurato che in tal modo avrebbe evitato il licenziamento, fatto oggetto del capitolo 2 della prova per testi. Da ciò risultava la mancanza di dolo nella trasgressione delle regole aziendali ed il carattere colposo del comportamento.

L'accertamento della Corte di merito era frutto di una errata applicazione della regola di cui all’articolo 2729 cod.civ.: il giudice dell'appello desumeva la sua conoscenza del divieto aziendale dal fatto di avere seguito un corso sull'utilizzo della carta NECTAR; dal fatto noto non si poteva tuttavia ricavare la sua consapevolezza del fatto che la trasgressione delle regole di utilizzo potesse dar luogo al licenziamento piuttosto che alla applicazione di sanzioni meno gravi.

La ricorrente ha altresì dedotto l'erronea valutazione, in violazione dell'art. 252 cod. proc. civ., della attendibilità dei testi introdotti dalla società — piuttosto che del teste M. — in ordine ai contenuti del regolamento aziendale affisso in bacheca; da una corretta valutazione delle fonti di prova sarebbe derivata la conclusione che la società non aveva assolto all'onere di provare la avvenuta affissione del regolamento aziendale ed i suoi contenuti.

Il motivo è inammissibile.

Le censure, benché formalmente qualificate sub specie di vizio di violazione di norme di diritto, investono l'accertamento del fatto storico da parte del giudice del merito all'esito della valutazione delle prove, in particolare in punto di affissione del regolamento aziendale, di consapevolezza da parte della odierna ricorrente dei suoi contenuti e di volontà della trasgressione.

Tale accertamento di fatto è denunziabile in questa sede di legittimità soltanto nei limiti di deducibilità del vizio della motivazione ai sensi dell'articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ.

Come ripetutamente affermato da questa Corte lo scrimine tra il vizio di violazione di legge in senso proprio, a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, di cui all'art. 360 nr 3 cod.proc.civ. e la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, di cui all'art.360 nr. 5 cod.proc.civ., è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest' ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in termini, Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonché Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. 11 agosto 2004, n. 15499).

Nella fattispecie di causa la deducibilità del vizio di motivazione incontra la assoluta preclusione di cui all'art. 348 ter co. 4 e 5 cod.proc.civ., applicabile ratione temporis (il ricorso in appello è stato depositato nell'anno 2014), in quanto la avvenuta affissione del codice disciplinare e la volontarietà della condotta illecita contestata sono state accertate in modo conforme nei due gradi di merito.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 DPR 115/2002) - della sussistenza dell'obbligo di versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 200 per spese ed € 3.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.