Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 14 febbraio 2019, n. 4393

Accertamento - Tributi - Dazi antidumping - IVA - Importazioni di merci - Sanzioni - Contenzioso tributario

 

Rilevato che

 

1. Con la sentenza n.177/15/12 del 27/06/2012, la CTR della Campania accoglieva l'appello principale proposto dall'Agenzia delle dogane avverso la sentenza n. 455/20/11 della CTP di Napoli - che, accogliendo parzialmente il ricorso proposto da W.I. s.r.l. nei confronti di un avviso di accertamento e irrogazione sanzioni per il recupero dei dazi cd. antidumping e della relativa IVA in relazione all'importazione di lampade a basso consumo, aveva annullato le sanzioni - e respingeva l'appello incidentale dell’importatrice.

1.1. Gli avvisi di rettifica derivavano dal report inviato dall'Ufficio Antifrode della UE (OLAF) di Bruxelles, il quale aveva rilevato l'origine cinese e non thailandese delle lampade importate.

1.2. La CTR motivava l'accoglimento dell'appello principale e il rigetto di quello incidentale osservando che: a) sebbene nessun invito al contraddittorio fosse stato rivolto a W.I. s.r.l., tuttavia l'atto impugnato conteneva «un esplicito richiamo alla facoltà dell'importatore di attivare il procedimento amministrativo di controversia doganale, nel corso della quale la società ben avrebbe potuto esporre e dedurre le ragioni a propria difesa», con la conseguenza che non si era «consumato un reale vulnus in danno del principio di tutela dei diritti di difesa» della contribuente; b) quest'ultima non aveva contestato «la veridicità e l'attendibilità delle indagini effettuate dai funzionari Olaf, il cui rapporto (...) costituisce elemento di prova fino a querela di falso nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro nel quale risulti necessario avvalersene»; c) l'esenzione daziaria presupponeva «la genuinità del certificato di origine», sicché non rilevava, ai fini dell'insorgenza del diritto al recupero, che si trattasse di falsità materiale o ideologica; d) non poteva essere invocata la presunta buona fede dell'importatore, sul quale gravavano «i rischi di un'azione di recupero dei diritti doganali», anche a seguito di irregolarità commesse da terzi, sicché era irrilevante «il mancato coinvolgimento dell'importatore nelle condotte poste in essere a monte dall'esportatore e, quindi, che il dichiarante abbia agito in buona fede», non essendo tenuta la UE a sopportare le conseguenze derivanti dai comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, rientranti nel cd rischio commerciale»; e) nella specie l'importatore non aveva fornito alcuna prova della sua buona fede e non aveva adoperato la diligenza richiesta ad un operatore esperto del settore (volta a verificare l'effettiva provenienza della merce).

2. W.I. s.r.l. ha impugnato la sentenza con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

3. L'Agenzia delle dogane ha resistito con controricorso.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso W.I. s.r.l. deduce la violazione e falsa applicazione dei principi generali di diritto tributario di cui agli artt. 5, 6, 7 e 10 della I. 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l'illogicità e irrazionalità della sentenza, nonché l'erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto su cui si fonda, evidenziando la nullità dell' avviso di rettifica, non preceduto dall'invio del processo verbale e notificato senza il rispetto del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000.

2. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

2.1. Con riferimento al rilievo per il quale gli avvisi di rettifica non preceduti dall'inoltro del processo verbale sarebbero nulli, la società contribuente deduce sostanzialmente un vizio di motivazione dell'atto, che farebbe riferimento a circostanze (quelle contenute nel processo verbale) da essa non conosciute, in quanto il documento in questione non le sarebbe stato notificato.

2.2. La censura è inammissibile sotto un duplice profilo: in primo luogo, nell'atto di appello, pur deducendosi la mancata notifica del processo verbale, non si fa alcun riferimento alle conseguenze che deriverebbero da tale mancata notifica, sicché il motivo deve ritenersi nuovo; secondariamente, difetta di specificità in quanto, non essendo stato trascritto l'avviso di rettifica, non può compiutamente valutarsi se tale atto riporti le circostanze sufficienti ad una sua corretta motivazione.

2.3. Con riferimento, poi, alla censura relativa all'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000, i rilievi della società ricorrente sono infondati. Detto articolo non si applica in materia doganale (Cass. n. 12832 del 23 maggio 2018), laddove l'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo Statuto del contribuente (Cass. n. 23669 del 01/10/2018; Cass. n. 15032 del 02/07/2014; Cass. n. 8399 del 05/04/2013), come confermato dalla normativa sopravvenuta (art. 92 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. con modif. nella I. 24 marzo 2012, n. 27, che ha aggiunto al comma 7 dell'art. 12, in fine, il seguente periodo: «Per gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all'articolo 34 del testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, si applicano le disposizioni dell'articolo 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374»).

2.4. Sotto quest'ultimo profilo, a fronte della rettifica operata dall'Amministrazione doganale, era onere della società contribuente, che non risulta averlo fatto, il procedimento di contraddittorio doganale, nel corso del quale essa avrebbe senz'altro potuto far valere le proprie contestazioni.

3. Con il secondo motivo di ricorso la W.I. s.r.l. deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 220, § 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992 (Codice doganale comunitario), in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l'illogicità e irrazionalità della sentenza, nonché l'erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto su cui si fonda.

3.1. In buona sostanza la ricorrente ritiene che: a) i giudici di secondo grado avrebbero ritenuto inapplicabile l'esimente di cui all'art. 220, § 2, lett. b), CDC, senza tenere conto del fatto che i dazi doganali non sarebbero stati riscossi a causa della mancata attivazione dei controlli da parte degli organi della UE in ordine all'osservanza dell'accordo commerciale; b) la buona fede dell'importatore ai fini dell'applicazione dell'art. 220, § 2, lett. b), CDC dovrebbe essere presunta e la prova della falsità dei certificati di origine preferenziale, della diversa provenienza delle merci e della diretta partecipazione dell'importatore all'attività fraudolenta dell'esportatore deve essere data dall'Ufficio; c) in ogni caso, le sanzioni di cui all'art. 303 TULD sarebbero inapplicabili in ragione della previsione dell'art. 10, comma 1 e 2, della I. n. 212 del 2000, per incolpevole affidamento rispetto all'origine delle merci importate.

4. Il motivo è infondato.

4.1. Con riferimento alle censure di cui sub a) e b), che involgono la corretta applicazione dell'esimente di cui all'art. 220, § 2, lett. b), CDC, occorre partire dal fondamentale arresto della S.C., secondo il quale «in tema di tributi doganali, l'applicazione del regime di esenzione o riduzione daziaria presuppone la regolarità formale e sostanziale della documentazione relativa all'origine e/o alla provenienza della merce, intendendosi per "origine" il luogo dove la merce è stata realizzata e per "provenienza" il luogo dal quale essa giunge o dove è stata oggetto di lavorazione o trasformazione (a tal fine non essendo sufficienti le operazioni di spolveratura, lavaggio, verniciatura, selezione, riduzione a pezzi, ecc.); pertanto, considerato che un certificato di origine "ignota" va considerato come "inesatto", le Autorità doganali, qualora constatino la falsità dei certificati di origine e provenienza, devono procedere alla contabilizzazione "a posteriori" dei dazi doganali, salve le deroghe nei seguenti casi tipizzati che devono concorrere cumulativamente: riscossione dovuta ad errore delle autorità competenti (sia di quella alla quale spetta procedere al recupero sia di quella di rilascio del certificato preferenziale di esportazione); errore tale da non poter essere ragionevolmente riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e diligenza, provocato da un comportamento "attivo" delle autorità che rilasciarono il certificato, non rientrandovi l'errore indotto da dichiarazioni inesatte rese dall'esportatore, salvo che le autorità di quel paese fossero informate o dovessero sapere dell'inoperatività dell'esenzione; osservanza di tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente per la dichiarazione in dogana» (Cass. n. 4997 del 02/03/2009).

La deroga al recupero a posteriori è appunto quella prevista dall'art. 220, § .2, lett. b), CDC,ammessa al cospetto delle tre condizioni che la norma contemporaneamente richiede, ossia che: 1) il rilascio irregolare dei certificati di origine sia dovuto ad un errore delle autorità competenti; 2) l'errore commesso dalle autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato dal debitore di buona fede; 3) quest'ultimo abbia osservato tutte le prescrizioni della normativa in vigore (vedi Corte di giustizia, 14 maggio 1996, cause C-153/94 e C-204/94, FaroeSeafood e altri; Corte giustizia, 3 marzo 2005, causa C-499/03 P,BiegiNahrungsmittel e Commonfood; Corte giustizia 18 ottobre 2007, causa C-173/06, Agrover; Corte di giustizia 15 dicembre 2011, C-409/10, Afasia Knits; Corte di giustizia, 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss).

In particolare, non può dirsi sussistente la buona fede «qualora, sebbene abbia evidenti ragioni per dubitare dell'esattezza di un certificato di origine "modulo A", un importatore si sia astenuto dall'informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se tali dubbi fossero giustificati» (così Corte di giustizia, 16 marzo 2017, cit., § 43).

4.2. Nel caso di specie l'Ufficio doganale ha correttamente proceduto alla contabilizzazione a posteriori dei dazi in ragione del fatto che l'origine della merce, indicata dall'esportatore come thailandese, è stata in un secondo momento accertata come cinese; e poiché la falsa certificazione di origine della merce non è oggetto di contestazione, con ciò l'Ufficio ha assolto all'onere probatorio sullo stesso gravante (cfr. Corte di giustizia, 16 marzo 2017, cit., § 47), restando a carico di importatore la prova della ricorrenza delle ulteriori condizioni per l'applicazione della esenzione prevista dall'art. 220, § 2, lett. b), CDC (cfr. Cass. 16/05/2012, n. 7674, in motivazione).

4.3. In proposito, va prima di tutto evidenziato che «il debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati EUR 1 per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalla autorità doganale di uno Stato membro dato che le operazioni effettuate da detti uffici nell'ambito dell'accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all'esercizio di controlli successivi» (Corte giustizia, 9 marzo 2006,causa C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, richiamata da Corte di giustizia, 8 novembre 2012, causa C-438/11, Lagura, in riferimento ai certificati FORM A, documenti giustificativi utili a fruire delle preferenze generalizzate unilateralmente concesse dalla UE), e ciò in quanto le prescrizioni del CDC, alla luce del suo sesto considerando («considerando che, tenuto conto della grande importanza che il commercio esterno ha per la Comunità, occorre sopprimere o per lo meno limitare, per quanto possibile, le formalità e i controlli doganali»), vanno interpretate nel senso che «(...) al momento dell'accettazione della dichiarazione in dogana, l'autorità suddetta non si pronuncia sull'esattezza delle informazioni fornite dal dichiarante, di cui quest'ultimo si assume la responsabilità» (Corte di giustizia, 15 settembre 2011, causa C-138/10, DP Group EOOD). Ne consegue, ha ribadito la Corte, che «(...) qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l'origine della merce indicata nel certificato EUR 1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, per conseguenza, il certificato EUR 1 e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente» (Corte giustizia 9 marzo 2006, cit.).

4.4. Secondariamente, a fronte dell'accertata falsità dei certificati di origine della merce, l'Unione Europea non può essere tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell'attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell'ambito dei loro rapporti negoziali (Corte giustizia, 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos; Cass. n. 19195 del 06/09/2006; Cass. n. 14509 del 30/05/2008; Cass. n. 1583 del 03/02/2012; Cass. n. 15758 del 19/09/2012).

4.5. Nel caso di specie, è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo a W.I. s.r.l., in considerazione dell'obbligo che gravava su quest'ultima di vigilare «sull'esattezza dell'informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall'esportatore, al fine di evitare abusi» (Cass. n. 24675 del 23/11/2011).

L'affermazione dell'obbligo in questione si rispecchia nel § 57 della sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos, richiamata da Cass. n. 24675 del 2011, cit., la quale espressamente rileva che, se la buona fede dell'importatore fosse capace di esentarlo comunque da responsabilità, «(...) l'importatore sarebbe indotto a non verificare più l'esattezza dell'informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell'esportatore, né la buonafede di quest'ultimo, il che darebbe luogo ad abusi».

Si noti che, sebbene la sentenza della Corte di giustizia si riferisca al regolamento CEE n. 1697/79 del Consiglio, del 24 luglio 1979, l'attualità del pericolo paventato dalla Corte di giustizia e dell'obbligo affermato da questa Corte trovano riscontro nell'art. 220, § 2, lett. b), CDC, secondo cui «la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale».

Si tratta, in questo caso, di una diligenza qualificata, da ragguagliare, giusta l’art. 1176, secondo comma, cod. civ., alla «natura dell'attività esercitata»; in particolare, l'esercizio professionale dell'attività di importatore da parte della società contribuente comporta ineludibilmente che lo sforzo diligente ad essa richiesto si estenda al controllo esigibile dell'esattezza delle informazioni fornite dall'esportatore allo Stato di esportazione (Cass. n. 5199 del 01/03/2013; Cass. n. 6621 del 15/03/2013).

4.6. Nella fattispecie, inoltre, non può nemmeno configurarsi l'errore determinato da un comportamento "attivo" delle autorità competenti: l'Ufficio doganale di Napoli così come l'Autorità doganale thailandese si sono limitate ad esaminare la regolarità formale dei documenti giustificativi del regime preferenziale, come loro specifico onere. Solo successivamente, a seguito della segnalazione dell'OLAF e una volta venuta a conoscenza della diversa origine della merce, l'Agenzia delle dogane ha proceduto al recupero a posteriori (comportamento ritenuto legittimo da Corte di giustizia, 16 marzo 2017, cit.).

4.7. Con riferimento, invece, alla censura sub c), basterà evidenziare che, in assenza di un affidamento incolpevole sull'effettiva origine preferenziale della merce importata, secondo quanto più sopra affermato, le sanzioni sono dovute.

4.8. Nella fattispecie, infatti, non risulta - come previsto dall'art. 10, commi 1 e 2, della I. n. 212 del 2000 - che la società importatrice si sia conformata a indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione doganale, ancorché successivamente modificate da quest'ultima, o che il suo comportamento sia stato posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'Amministrazione stessa.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, in cui la CTR farebbe riferimento a norme di legge e a giurisprudenza non citata, senza dare conto del procedimento logico-giuridico seguito, e non avrebbe motivato in ordine ai presupposti applicativi dell'art. 220, § 2, lett. b), CDC.

6. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

6.1. Sotto il primo profilo, la formulazione del motivo è affetta da genericità, non essendo spiegato perché la mancata citazione delle specifiche norme di diritto applicabili e della giurisprudenza (i cui riferimenti sono, peraltro, citati dalla sentenza impugnata) comporterebbe un difetto di motivazione.

6.2. Sotto il secondo profilo, come precedentemente chiarito, la sentenza di secondo grado, con motivazione essenziale ma sufficiente per chiarezza e contenuto, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza interna e eurounitaria con riferimento all'art. 220, § 2, lett. b), CDC, correttamente escludendo l'applicazione dell'esimente al caso di specie e, dunque, ritenendo la responsabilità dell'importatore.

7. In conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo, avuto conto di un valore di lite dichiarato di euro 87.575,78.

7.1. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater dell'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 5.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell'art. 1 bis dello stesso art. 13 (ndr comma 1 bis dello stesso art. 13).