Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 aprile 2017, n. 10017

Lavoro - Contratto di cessione d’azienda - Assunzione - Mancato superamento del periodo di prova - Licenziamento

 

Fatti di causa

 

C.T. e S.M.A.S. adivano il Tribunale di Busto Arsizio ed esponevano di aver lavorato alle dipendenze della R. s.r.l. con mansioni di impiegate rispettivamente dal 2/7/1992 e dal 1/6/2000; deducevano che detta società aveva stipulato con la C. s.r.l. nel febbraio 2008, un contratto di cessione d'azienda con il quale si prevedeva che la venditrice si sarebbe adoperata per ottenere le dimissioni delle lavoratrici, e l'acquirente si sarebbe impegnata ad assumerle; precisavano quindi che, rassegnate le dimissioni, in data 27/1/2008 erano state assunte dalla C. s.r.l. la quale aveva tuttavia provveduto a licenziarle (rispettivamente, il 19 ed il 29 marzo 2008) per mancato superamento del periodo di prova.

Sulla scorta di tali premesse in fatto, convenivano in giudizio la C. s.r.l. per conseguire pronuncia dichiarativa della illegittimità dei licenziamenti intimati durante il periodo di prova, in violazione della normativa posta a tutela dei lavoratori in tema di trasferimento d'azienda, e di condanna al consequenziale risarcimento del danno.

Costituitasi in giudizio, la società instava per il rigetto delle domande.

Il giudice adito accoglieva integralmente il ricorso e condannava la società al pagamento dell'indennità risarcitola pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, all'indennità di preavviso ed all'ulteriore risarcimento danni in favore della T. per aver reperito una nuova occupazione con retribuzione inferiore rispetto alla precedente, con pronuncia che veniva confermata dalla Corte d'Appello di Milano.

Il giudice dell'impugnazione, nel proprio iter argomentativo osservava, per quanto in questa sede rileva, che il contenuto sostanziale degli accordi stipulati fra le società vulnerava i precetti sanciti dall'art. 2112 c.c. in materia di cessione del ramo d'azienda e la direttiva comunitaria alla quale si era data attuazione, intesa a perseguire l'evidente finalità di tutela dei lavoratori in caso di mutamento della parte datoriale. Precisava che le dimissioni rassegnate dovevano essere collocate nella più ampia cornice di un disegno tracciato dai soggetti del meccanismo di cessione al fine di rendere l'operazione maggiormente conveniente, e non potevano essere, pertanto, riguardate in un'ottica atomistica rispetto al contesto in cui erano inserite.

Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione sostenuto da sette motivi.

Resistono con controricorso le parti intimate.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con i primi due motivi, in relazione all'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c.e 2112 c.c..

Si critica la sentenza impugnata per aver reputato applicabile alla fattispecie la disciplina in tema di trasferimento d'azienda sul presupposto, fallace, che le ricorrenti fossero entrambe dipendenti della società R. al momento della cessione, avendo le stesse rassegnato regolarmente le proprie dimissioni.

2. Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 1372 c.c. ex art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..

Si sostiene che della clausola contenuta nel contratto di cessione d'azienda volta a far sì che il cedente ottenesse le dimissioni dei propri dipendenti onde eludere le tutele previste dall'art. 2112 c.c. e della relativa nullità, avrebbe potuto avvalersi solo una delle parti contraenti e non soggetti terzi quali i dipendenti.

3. Con il quarto ed il quinto motivo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 1427-2113 c.c. in relazione all'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si lamenta che la Corte distrettuale non abbia pronunciato in ordine al motivo di appello concernente l'omesso accertamento da parte del giudice di prima istanza, circa la ricorrenza di un vizio di volontà idoneo ad inficiare la validità delle dimissioni rassegnate, peraltro in alcun modo impugnate dalle lavoratrici in coerenza coi dettami di cui all'art. 2113 c.c..

4. Con il sesto mezzo di impugnazione, si denunzia violazione o falsa applicazione dell'art. 2096 c.c. in relazione all'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si critica la sentenza impugnata per non aver motivato in ordine alla censura attinente alla statuizione con cui il primo giudice aveva ritenuto illegittimo il patto di prova contenuto nei rispettivi atti di assunzione, in considerazione dell'esperienza pluriennale maturata dalle ricorrenti nel settore, avendo reputato assorbita la questione alla luce delle precedenti statuizioni.

5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattesi.

Non può infatti tralasciarsi di considerare che la struttura argomentativa che innerva l'impugnata sentenza si fonda integralmente sull'inquadramento unitario della complessa vicenda contrattuale in cui il rapporto di lavoro instaurato fra la ricorrente e le lavoratrici, nonché la sua fase di risoluzione, sono stati riguardati come parti di un più complesso disegno elusivo delle tutele predisposte a favore dei lavoratori dalla disciplina di cui all'art. 2112 c.c.

Nell'ottica descritta le singole, frammentarie critiche formulate dalla società ricorrente non appaiono idonee ad inficiare l'autonoma ratio che sorregge l'iter motivazionale dell'impugnata sentenza, così esponendosi ad un giudizio di inammissibilità.

Va infatti richiamato il principio affermato da questa Corte, che va qui ribadito, in base al quale ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza (vedi ex aliis, Cass. 11/2/2011 n. 338).

6. Con il settimo motivo si deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 8 l. 604/66 in relazione all'art. 360 comma primo nn. 3 e 5 c.p.c.

Ci si duole che la Corte distrettuale non abbia statuito in ordine alla specifica doglianza sollevata in sede di gravame e relativa alla liquidazione del risarcimento del danno nella misura massima prevista dalla richiamata norma di legge, disposta dal giudice di prima istanza nella carenza di prova della effettiva anzianità di servizio presso la società cedente.

Sotto ulteriore profilo si critica la sentenza impugnata per aver rigettato la censura concernente l'ulteriore condanna della società al risarcimento del danno in favore della T.

7. Il motivo va disatteso.

Si impone, infatti, l'evidenza del difetto di specificità che lo connota, non recando puntuale descrizione delle censure formulate in sede di gravame, così esponendosi ad un giudizio di inammissibilità per novità.

Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 28/7/2008 n. 20518, Cass. 2/4/2004 n. 6542), qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.

In applicazione del suddetto principio il motivo deve essere considerato inammissibile nella parte attinente alla omessa motivazione in ordine al motivo di appello attinente alla liquidazione del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, quale conseguenza della applicazione della tutela obbligatoria.

La doglianza si palesa, sotto altro versante, parimenti inammissibile, laddove critica la pronuncia di conferma della condanna al risarcimento dei danni ulteriori patiti dalla T. per aver reperito una nuova occupazione con retribuzione inferiore rispetto alla precedente, giacché la specifica ratio che sorregge la decisione, è ancora una volta riconducibile all'intrinseca illegittimità del meccanismo elusivo posto in essere in danno delle lavoratrici, che non è stata oggetto di specifica censura, come innanzi esposto.

8. In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è rigettato.

Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio si pongono a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata da distrarsi in favore dell'avv. R.P.

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell'ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore dell'avv. R.P.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.