Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 25 maggio 2017, n. 13201

Contratto a tempo determinato - Nullità - Dipendente postale - Clausola di contingentamento - Mancata prova

 

Rilevato

 

Che con sentenza in data 25 marzo 2010 la Corte di Appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra P.I. s.p.a. e A.C. nel periodo dal 2 luglio al 31 agosto 2001, ai sensi dell'art. 25 del C.C.N.L. del 2001, per mancata prova del rispetto della cd. clausola di contingentamento, dichiarando che tra le parti intercorreva un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e condannando la società al pagamento delle retribuzioni dalla messa in mora del 24 settembre 2004; che avverso tale sentenza P.I. Spa ha proposto ricorso affidato a plurimi motivi, cui ha opposto difese l'intimato con controricorso; che il controricorrente ha depositato memoria, poi replicata in vista dell'Adunanza camerale.

 

Considerato

 

Che il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia violazione e falsa applicazione di legge per avere la Corte territoriale attribuito alla società l'onere probatorio in ordine al rispetto della clausola di contingentamento, è infondato in ragione del principio di diritto, da cui non v'è motivo di discostarsi, secondo cui: "In tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui all'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, l'onere della prova dell'osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi necessariamente sulla base dell'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in forza dell'art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, dell'oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro" (Cass. n. 4764 del 2015; Cass. n. 839 del 2010; più di recente: Cass. n. 13513 del 2016); che il secondo motivo denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 - c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., criticando la sentenza impugnata per non avere ammesso la prova documentale e la prova testimoniale articolata dalla società e per non avere i giudici del merito attivato poteri istruttori officiosi; che tale doglianza non ha pregio perché in parte priva di pertinenza rispetto al decisum, laddove dalla sentenza impugnata risulta espressamente che i giudici del merito hanno esaminato la produzione documentale della società, ed in parte investe inammissibilmente il potere discrezionale del giudice del merito circa la rilevanza e l'ammissibilità del capitolato di prova testimoniale; in ogni caso l'accertamento in fatto mediante l'esame del materiale istruttorio del superamento o meno dei limiti percentuali compete al giudice del merito ed è insindacabile in questa sede, ove, come nella specie, congruamente motivato (Cass. nn. 12831 e 8453 del 2016); infine, circa la censura relativa alla mancata attivazione dei poteri di ufficio, la società non specifica adeguatamente se in proposito abbia tempestivamente invocato tale esercizio, con la necessaria indicazione dell'oggetto possibile degli stessi;

- che il terzo mezzo lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 25 del CCNL del 2001 e dell'art. 23 della I. n. 56 del 1987, sull'assunto che il rispetto della clausola di contingentamento "risulta estraneo al contenuto normativo del contratto collettivo medesimo, rilevando piuttosto dal punto di vista dei vincoli obbligatori intercorrenti tra le predette parti stipulanti"; che il motivo è infondato in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la determinazione da parte della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr. da ultimo Cass. n. 8453 del 2016, e prima: Cass. n. 22009 del 2011; Cass. n. 4677 del 2006);

- che il quarto motivo denuncia violazione ed erronea applicazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora e sulla corrispettività delle prestazioni, sostenendo che, anche in caso di nullità del termine, la lavoratrice avrebbe diritto, a titolo risarcitorio, alle retribuzioni solo dal momento dell’effettiva ripresa del servizio; a tale motivo si connette anche la richiesta di applicazione dello ius superveniens costituito dalla I. n. 183 del 2010, art. 32;

- che tali censure vanno accolte per quanto di ragione, essendo applicabile lo ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte (v. fra le altre Cass. 12.8.2015 n. 16763 ed i precedenti ivi richiamati); né rileva l'avvenuta abrogazione dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183/2010 ad opera dell'art. 55, lett. f, del d.lgs 15 giugno 2015 n. 81, (da ultimo Cass. n. 7132 del 2016);

- che le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 21691 del 2016, hanno statuito che "in tema di ricorso per cassazione, la censura ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che non richiede S necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l'operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all'ordinamento giuridico"; hanno altresì chiarito che "il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta retroattiva incontra il limite del giudicato, che, tuttavia, ove sia stato proposto appello, sebbene limitatamente al capo della sentenza concernente l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, non è configurabile in ordine al capo concernente le conseguenze risarcitorie, legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al combinato disposto degli artt. 329, comma 2, e 336, comma 1, c.p.c., l'impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente";

- che pertanto non vi è giudicato sulle conseguenze risarcitorie sino a quando resta impugnato l'an sulla illegittimità del termine ed ove questa statuizione venga confermata occorre tenere conto dell'art. 32 della I. n. 183 del 2010, affinché la decisione adottata sia conforme all'ordinamento giuridico; che, pertanto, respinti gli altri motivi di ricorso, va accolto l'ultimo nei sensi e nei limiti del detto ius superveniens, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso e con rinvio per il riesame, sul punto, alla Corte di Appello indicata in dispositivo, che dovrà limitarsi a quantificare l'indennità spettante ex art. 32 cit. per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. n. 14461 del 2015), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine (cfr. per tutte Cass. n. 3062 del 2016), provvedendo altresì alle spese del giudizio;

 

P.Q.M.

 

Accoglie il motivo concernente l'applicazione dell'art. 32 della I. n. 183 del 2010, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.