Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 28 novembre 2016, n. 24169

Contratti di lavoro interinale - Illegittimità - Assunzione a tempo indeterminato - Accertamento

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 20 ottobre 2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:

"Con sentenza depositata in data 11 febbraio 2014, la Corte di appello di Ancona, pronunciando sulle impugnazioni principale e incidentale proposte dal Ministero dell'Interno e da C.M. e F.G., in riforma della decisione del Tribunale, di Ascoli Piceno, rigettava le domande, proposte da questi ultimi nei confronti del Ministero.

Le questioni dedotte in giudizio erano state: l’illegittima stipula di una serie di contratti di lavoro interinale e di somministrazione a termine; l’accertamento del diritto all’assunzione a tempo indeterminato, con conseguente risarcimento del danno da determinarsi alla stregua delle retribuzioni non percepite fino alla data di trasformazione del rapporto;

- in subordine, il risarcimento del danno ex art. 36 del d.lgs. n. 165/2001.

La Corte territoriale escludeva, con riferimento all’appello incidentale, la possibilità di una conversione legale dei contratti sia secondo la disciplina comunitaria sia secondo il diritto interno, evidenziando, in particolare, che nella fattispecie non poteva operare alcuna deroga al meccanismo del reclutamento concorsuale; riteneva, quanto all’appello principale, che doveva essere disattesa la tesi accolta dalla sentenza di primo grado che aveva condannato il Ministero al pagamento di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto in favore di ciascuno dei dipendenti quale risarcimento per l’illegittimità dei primi di una serie di contratti interinali a termine intercorsi tra le parti. In particolare rilevava che la pretesa di risarcimento parametrata alla progressione economica si sarebbe tradotta non già nel risarcimento del danno per l’utilizzo in ipotesi abusivo dei contratti a termine, ma nella produzione di un effetto sostanzialmente identico alla conversione dei rapporti. Quanto al danno morale richiesto dalle parti, rilevava che la qualificazione dello stesso non dispensava dalla prova a carico del danneggiato.

Per la cassazione di tale decisione ricorrono il C. ed il F., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, il Ministero.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione: e falsa applicazione della normativa europea e, specificamente, della Direttiva n. 1999/70 CE e dell’art. 36 d. Igs 165/2001, con riguardo alla presunta inapplicabilità della sanzione di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, richiamando passaggi rilevanti dell’ "Ordinanza Affatato" e della "Ordinanza Papalia" della Corte di Giustizia, che avevano sancito che, pur non essendo imposto ad un ordinamento giuridico interno di prevedere la sanzione della trasformazione del rapporto, tuttavia, in ipotesi di plurime violazioni della legge interna e della normativa comunitaria in tema di contratti a termine, le norme con le quali uno Stato da attuazione alla normativa europea antiabuso non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano analoghe situazioni di natura intenta, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario.

Il motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte, a sezioni unite, ha recentemente ribadito - cfr. Cass., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5072 - che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinalo a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicché non può predicarsi la conversione del rapporto quale ‘sanzione’ dell’illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato - oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicché può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, ‘misure energiche (come richiesto dalla Corte, di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinalo; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.

La medesima pronuncia ha richiamato la decisone della Corte costituzionale, (sent. 27 marzo 2003, n. 89) che ha escluso ogni contrasto (con gli artt. 3 e 97 Cost. dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. E’, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamenle risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione - rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privali. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che «[...] il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello [...] dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione». Ed ha sottolineato che «l’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità sotto l’aspetto considerato - delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratoti da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati». In termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è: del tutto estraneo. Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale, mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare «il buon andamento e l’efficacia dell'Amministrazione», valori presidiati dal primo e dal terzo comma dell’art. 97 Cost. (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 31 del 2004 e n. 1 del 1999).

Sempre nella suddetta decisione a sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte di giustizia, nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., (C-212/04 del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonché ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364/07; del 21 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162/08, e del 1° ottobre 2010, Affatato, C-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE: (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione - in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato. La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così "lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia".

Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti, giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinalo (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5; precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.) che "l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato".

Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano plurime violazioni della legge interna e della normativa comunitaria in tema di contratti a termine, dolendosi del diniego di ogni risarcimento per abuso di contratti di lavoro precario. Censurano la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che non potessero trovare accoglimento prospettazioni di danno discendenti dalla mancata conversione del rapporto.

Il motivo è manifestamente fondato alla luce di quanto precisato dalla sopra citata decisione di questa Corte a sezioni unite n. 5072/2016.

E’ stato innanzitutto chiarito che le considerazioni svolte sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione come detto - è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli europei. Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché una tale prospettiva non c’è mai stata.

Come è stato precisato, il danno è altro.

Il lavoratore, che, abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipolesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.

Si può ipotizzare una perdita di chance nel senso (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato); ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.

Tuttavia l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dall’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore: pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte, di giustizia, nell’esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Ad avviso delle sezioni unite, "la trasposizione di questo canone, di danno presunto esprime anche, una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e, 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere, in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perché - si ripete la mancata conversione, è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione".

E’ stato così conclusivamente affermato che; "il lavoratore pubblico - e non già il lavoratore privato - ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato".

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha errato nell’escludere ogni risarcimento sulla base della mancata prova dei danni conseguiti e così ogni presunzione di danno, essendo l’ipotesi considerata, di una pluralità di contratti interinali a termine, assimilabile, sul piano delle conseguenze risarcitorie connesse all'abusivo utilizzo della fattispecie contrattuale, a quella dell’ipotesi di contratti a termine in successione.

In conclusione, si propone l'accoglimento del secondo motivo ed il rigetto del primo; la cassazione dell’impugnata pronuncia in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altro giudice di merito che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: "Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604"; il tutto con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5".

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis, co. 2, cod. proc. civ..

Osserva il Collegio che il contenuto della sopra riportata relazione sia pienamente condivisibile siccome coerente alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfito dalla memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. depositata dai ricorrenti, posto che le argomentazioni sviluppate in ordine alla distinzione sostanziale del concetto di conversione da quello di costituzione del rapporto di lavoro poggia su una diversità meramente terminologica e non trova alcun fondamento normativo nell’ambito della ricostruzione sistematica operata dalla decisione di questa Corte a s.u. richiamata, che ha posto in luce la compatibilità comunitaria di un regime sanzionarono differenziato pubblico/privato che preveda per il primo il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, come si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

Alla luce di quanto esposto, confermandosi la proposta di reiezione, del primo motivo, va accolto il secondo motivo e la decisione va in relazione ad esso cassata, con rinvio anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo, rigettato il primo, cassa l'impugnata decisione in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.