Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 16 gennaio 2019, n. 874

Tributi - Reddito di impresa - Determinazione - Costi deducibili - Inerenza all'attività di impresa

 

Fatti di causa

 

1. La Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale di Milano, depositata il 3 novembre 2009 di reiezione dell'appello dalla stessa proposto avverso la decisione della Commissione Provinciale che aveva annullato l'avviso di accertamento a carico della F. S.p.A. mediante il quale erano state disconosciute talune componenti negative di reddito in relazione all'anno di imposta 1998.

2. Dall'esame della sentenza di appello si evince che, conformemente alla decisione di primo grado, n. 255 del 30 novembre 2006, era stata integralmente accolta la prospettazione della contribuente con conseguente annullamento della ripresa a tassazione che aveva riguardato, nello specifico: a) costi per ammortamenti e costi relativi ad automezzi aziendali destinati al trasporto promiscuo di cose e persone ritenuti indeducibili ai sensi dell'art. 121 bis TUIR; b) costi per indennità forfettaria corrisposta alla società conduttrice G. S.p.A. per lavori dalla stessa effettuati nei locali di proprietà della F.; c) perdite su crediti ritenuti indeducibili nell'esercizio considerato in quanto l'inesigibilità dei crediti si sarebbe manifestata negli anni precedenti; d) spese di rappresentanza poiché non collegabili ad oggettivi ricavi conseguiti nell'esercizio e quindi non deducibili, a norma dell'art. 74 TUIR.

3. Il ricorso è affidato a due motivi.

4. Resiste con controricorso la F. S.p.A.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso proposto la Agenzia delle Entrate censura la decisione d'appello per violazione dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992 deducendone la nullità in relazione all'art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., per difetto di motivazione.

Secondo la ricorrente, infatti, la Commissione regionale, nel motivare la statuizione adottata, si sarebbe limitata a riprodurre integralmente il contenuto delle controdeduzioni della contribuente, omettendo qualsivoglia considerazione in ordine alle ragioni che l'avevano indotta a tale adesione.

2. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato e vada respinto.

Va preliminarmente rilevato, al riguardo, che secondo quanto chiarito dal Supremo Collegio, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla purché le ragioni della decisione siano, comunque, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo; alla luce delle disposizioni costituzionali e processuali, infatti, tale tecnica redazionale della motivazione non può ritenersi, di per sé, sintomo od espressione di un difetto d'imparzialità del giudice, non essendo quest'ultimo tenuto né all'originalità dei contenuti né a quella delle modalità di esposizione della ratio decidendi; tale conclusione, risulta avvalorata dalla circostanza che la validità degli atti processuali non opera sul medesimo piano della valutazione professionale o disciplinare del magistrato (SU n. 642 del 15 gennaio 2015).

La normativa codicistica prevede una serie imprescindibile di criteri decisori che inducono ad escludere che possa richiedersi una qualche forma di "originalità" al giudicante. Fra questi: il principio secondo cui il giudice deve decidere su tutta e non oltre la domanda; quello in base al quale deve decidere iuxta alligata ac probata senza porre a base della decisione fatti e prove non ritualmente introdotti dalle parti nel processo, essendogli vietato fare riferimento alla propria scienza privata; la necessità di decisione (salvo i casi di pronuncia secondo equità) in base alla legge, tenendo in considerazione (alla luce del principio di nomofilachia introdotto dall'art. 65 dell'ordinamento giudiziario) l'interpretazione della legge fornita dal giudice di legittimità, salvo che non ravvisi valide ragioni per discostarsene; l'esclusione, infine, delle c.c.d.d. "sentenze della terza via", dovendo evitarsi che vengano poste a fondamento della decisione questioni rilevate d'ufficio che non siano state previamente indicate alle parti. D'altro canto, nella disciplina processuale civile non risulta in alcun modo vietato riportare in sentenza il contenuto di scritti (altre sentenze, atti amministrativi, scritti difensivi di parte o più in generale atti processuali) la cui paternità non sia attribuibile all'estensore.

La copiosa giurisprudenza resa in sede di legittimità sulla motivazione per relationem (su cui, fra le altre, SU n. 16277 del 12 luglio 2010) conferma tale assunto.

2.1. Orbene, risulta di palmare evidenza, dalla lettura della motivazione resa dalla Commissione Tributaria Regionale, che, contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, nel riportare il contenuto degli scritti difensivi del contribuente la Commissione stessa abbia dato adeguata contezza delle ragioni di condivisione delle deduzioni della parte, facendo proprio il contenuto degli scritti mediante locuzioni espressive di una valutazione positiva di quanto ivi contenuto (si vedano, fra gli altri, i punti relativi all'inerenza, al motivo, ritenuto nuovo, in ordine all'indennizzo forfettario, le modalità di richiamo alla sentenza della Corte n. 23863 del 19/11/2007, gli aspetti inerenti la prova circa l'uso delle auto da parte dei dipendenti e così via), in tal modo offrendo una motivazione conforme ai principi vigenti in materia di "autonomia" dei procedimenti giurisdizionali.

3. Con il secondo motivo, la Agenzia delle Entrate deduce l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, con riguardo ad un unico inciso - che la stessa ricorrente sottolinea non rappresentare apparentemente un capo autonomo della sentenza - quello descritto dalla locuzione "il contribuente ha provato che le auto venivano date in uso ai dipendenti", in ordine al quale, secondo la ricorrente, difetterebbe qualsivoglia riferimento alle fonti di convincimento del giudice di merito.

3.1. Va premesso che, qualora venga addotta l'omessa od erronea valutazione di talune risultanze istruttorie, grava sulla parte ricorrente l'onere di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non o mal valutate mentre, per consolidata giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 7394 del 2010; Cass n. 14754 del 2014; Cass. n. 19547 del 2017) il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità, atteso che il citato art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

3.2. Nel caso di specie, peraltro, parte ricorrente non si duole stricto sensu della omessa od erronea valutazione di prove da essa stessa addotte, asserendo di aver semplicemente dichiarato, in sede di appello, che... "la parte dovrebbe comunque provare ... che il costo rispetti il requisito dell'inerenza rispetto all'attività esercitata".

A fronte di questa mera indicazione "di principio", deve ritenersi più che soddisfacente la motivazione adottata dalla Commissione Tributaria Regionale nell'affermare testualmente che "l'Ufficio per gli autoveicoli non ha mai contestato che fossero dati in uso ai dipendenti per l'espletamento della propria attività di lavoro, quindi, non poteva esservi dubbio circa la deducibilità dei relativi costi in quanto sicuramente inerenti all'attività di impresa, come sancito anche di recente dalla Suprema Corte (Cass. 30/7/2007, n. 16826)

.... Tali costi quindi essendo correlati all'attività d'impresa sono sicuramente inerenti e, come previsto dalla stessa disposizione di legge (art. 121 bis, comma 1, lett. a, n. 2) sono totalmente deducibili e comunque il contribuente ha provato che le auto venivano date in uso ai dipendenti...". Appare evidente, secondo il Collegio, la congruità della motivazione a fronte delle apodittiche affermazioni della ricorrente, peraltro in assenza di qualsivoglia contestazione sul punto od allegazione probatoria in sede di merito.

4. Il ricorso deve, quindi, essere respinto.

4.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte controricorrente, che liquida in euro 7.000.000, oltre spese generali nella misura 15% ed accessori di legge.