Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25 settembre 2017, n. 22289

Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato - Differenziazione tra lavoro autonomo e subordinato - Volontà e nomen iuris assegnato dalle parti al contratto - Non vincolanti per il giudice e comunque sempre superabili in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di Roma, con sentenza depositata il 2/6/2012, accogliendo il gravarne interposto da P.E., nei confronti di E.a Lazio-Ente Confederale per l'Istruzione Professionale dell'Artigianato in liquidazione, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede resa in data 15/2/2006, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti dal 18/1/1999 sino al 31/12/2003, con inquadramento del P. nel V livello del CCNL formazione professionale dal 18/1/1999 sino al 30/6/2000 e nel VI livello del medesimo CCNL dall’1/7/2000 sino al 31/12/2003 e condannava E. Lazio in liquidazione al pagamento, in favore dell'appellante, della somma complessiva di Euro 50.663,15 a titolo di differenze retributive, oltre interessi e rivalutazione, nonché alla relativa regolarizzazione della posizione assicurativa e contributiva presso i competenti uffici, nonché alle spese di lite del doppio grado.

Per la cassazione della sentenza E. Lazio in liquidazione propone ricorso, articolando due motivi ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 del codice di rito.

Il P. resiste con controricorso

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo la parte ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c., deducendo che dalle risultanze istruttorie sarebbe emerso, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, l'esistenza di un rapporto di lavoro coordinato e continuativo tra le parti, mancando in tale rapporto la sottoposizione del P. al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.

2. Con il secondo motivo si censura. sempre in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., lamentando che, al riguardo, la sentenza della Corte distrettuale sarebbe viziata per violazione del predetto articolo, poiché non è stata provata dal lavoratore la pretesa che si voleva far valere in giudizio.

1.1: 2.1 l motivi - da trattare unitamente. essendo i medesimi entrambi diretti a censurare il procedimento logico-giuridico che ha condotto i giudici di seconda istanza a ravvisare nel rapporto di lavoro di cui si tratta i connotati della subordinazione - non sono meritevoli di accoglimento.

E' da premettere che il caso all'esame ripropone la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari.

Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni "primordiali" e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del "tipo legale" e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido e comunque. di difficilmente definibile. Per cui la qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua sussunzione sotto l'uno o l'altro nomen iuris diventa più delicata e richiede una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi.

Soccorre, peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato l'insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi, ormai dirsi consolidata.

E' noto, difatti, che, secondo il richiamato e consolidato insegnamento della giurisprudenza della Suprema Corte, l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (optus): ex multis, Cass. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994; e, più di recente, Cass. 28 marzo 2003 n. 4770, secondo la quale, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr, pure, tra le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013).

E’ stato altresì affermato che l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi - come l'assenza del rischio economico. il luogo della prestazione. la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. 7171/2003). costituendo quegli elementi. ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l'una che con l'altra qualificazione del rapporto stesso (fra le altre - e già da epoca meno recente - Cass. 7796/1/1993; 4131/1984).

Ciò precisato, è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l'altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell'esercizio della loro autonomia contrattuale.

Pertanto, quando i contraenti abbiano dichiarato di volere escludere l'elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo (v. fra le molte, e già da epoca meno recente. (Cass. 4220/1991; 12926/1999).

Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche. diverse modalità di adempimento della prestazione (Cass. 812/1993).

Al proposito, questa Corte di legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall'effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai lini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.). ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell'ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto (Cass., 4770/2003; 5960/1999).

Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro.

Di recente, con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha ribadito che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l'orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l'inserimento nell'organizzazione aziendale.

E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l'onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra le molte. Cass. n. 11937/2009).

Tutto ciò premesso. deve osservarsi che, nella fattispecie, la Corte territoriale è compiutamente pervenuta alla delibazione dei punti di emersione probatoria alla luce dei richiamati, costanti, insegnamenti giurisprudenziali, stabilendo che il P. era tenuto a rispettare un orario di lavoro stabilito dal datore di lavoro, il quale ultimo forniva al lavoratore la gran parte dei mezzi e delle strutture per l'espletamento del proprio lavoro.

Pertanto, deve affermarsi che la Corte territoriale, attraverso un iter motivazionale ineccepibile, basato. come innanzi rilevato, sulla sequenza temporale dei fatti e sulla documentazione posta a sostegno della motivazione, ha operato la corretta sussunzione di tali fatti nelle norme da applicare. Ne consegue che i mezzi di impugnazione articolati non sono idonei a scalfire le argomentazioni cui è pervenuta la Corte di merito.

Quanto sin qui detto conduce al rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.500,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.