Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 febbraio 2017, n. 4632

Lavoro - Pubblico impiego - Contratto a termine - Illegittima reiterazione - Conversione in contratto a tempo indeterminato - Esclusione

 

Fatto

 

Con sentenza depositata il 24.4.2012, la Corte d'appello di Cagliari-sez. distaccata di Sassari, in parziale riforma della statuizione del primo giudice, rigettava la domanda di S. S. volta alla conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato del contratto a termine stipulato con ARST (oggi ARST s.p.a.) per il periodo 18.6.2004- 19.6.2005, e condannava l'azienda a risarcire il danno patito dal lavoratore, che liquidava in 2,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita.

La Corte, in particolare, riteneva che i contratti stipulati con l’azienda appellante, che all’epoca dei fatti era ente pubblico economico preposto ai trasporti regionali della Sardegna, non fossero suscettibili di essere convertiti in rapporti a tempo indeterminato, ostandovi da un lato il combinato disposto dell'art. 5, d.l. n. 702/1978 (conv. con I. n. 3/1979), e dall'altro la previsione dell'art. 23, I. r. Sardegna n. 16/1974, e dell'art. 8, I. n. 153/1980, e - sul presupposto che l'apposizione del termine fosse viziata di nullità - condannava l'azienda a risarcire i danni al lavoratore appellato in applicazione dell'art. 32, I. n. 183/2010.

Contro tali statuizioni ricorre S. S. con cinque motivi. ARST s.p.a. resiste con controricorso, illustrato con memoria.

 

Diritto

 

Con il primo motivo, parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 23, I. r. Sardegna n. 16/1974, dell'art. 117 Cost. e della I. cost. n. 3/1948, recante approvazione dello Statuto speciale della Regione Sardegna, nonché subordinatamente l'illegittimità costituzionale dell'art. 23 cit., per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost. e con la I. cost. n. 3/1948, per avere la Corte di merito ritenuto che l'assunzione alle dipendenze di ARST dovesse avvenire necessariamente per pubblico concorso, con conseguente insuscettibilità di conversione dei contratti a termine stipulati illegittimamente con essa.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 5, d.l. n. 702/1978 (conv. con I. n. 3/1979), nonché degli artt. 23 e 25, I. n. 142/1990, per avere la Corte territoriale ritenuto l'applicabilità ad un'azienda pubblica regionale della prima delle disposizioni citate al fine di dedurne la nullità delle assunzioni disposte in deroga all'obbligo del concorso.

Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione del d.l. n. 702/1978, della I. r. Sardegna n. 16/1974 e del d.lgs. n. 368/2001, per avere la Corte di merito ritenuto che soltanto la verifica della legittimità dell'apposizione del termine dovesse essere condotta alla stregua di tale ultima disciplina, ricadendo invece le conseguenze dell'accertamento della nullità della stipulazione sotto l'imperio del d.l. n. 702/1978 e della I. r. Sardegna n. 16/1974.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 32, I. n. 183/2010, anche in relazione all'art. 8, I. n. 604/1966, per avere la Corte territoriale ritenuto che la disposizione citata prevedesse una sanzione dissuasiva, a termini dell'ordinamento comunitario, rispetto all'utilizzo abusivo della stipulazione a termine.

Da ultimo, con il quinto motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 32, I. n. 183/2010, in relazione agli artt. 1218, 1219, 1223, 1224, 1225 e 1226 c.c., nonché per vizio di motivazione, per avere la Corte di merito liquidato il risarcimento del danno nella misura minima di cui all'art. 32, I. n. 183/2010.

Ciò posto, i primi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante l'intima connessione delle censure svolte, e sono infondati.

Va premesso che l'art. 23, I. r. Sardegna n. 16/1974, stabilisce espressamente che, fatta eccezione per gli speciali casi contemplati dal precedente art. 22, che qui non vengono in rilievo, "il personale dell'ARST è assunto esclusivamente mediante concorso pubblico".

Si tratta di una limitazione delle modalità di accesso all'impiego che, oltre ad apparire coerente con analoghe disposizioni già previste per i comuni, i consorzi e le rispettive aziende dall'art. 5, d.l. n. 702/1978 (conv. con I. n. 3/1979), nonché per le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica dall’art. 18, d.l. n. 112/2008 (conv. con I. n. 133/2008), ed ancora, da ultimo, per le società a partecipazione pubblica dall'art. 19, d.lgs. n. 175/2016, trova la sua ratio nel principio costituzionale di buona amministrazione degli uffici pubblici (art. 97 Cost.), che collega la regola del concorso non tanto alla natura giuridica pubblica o privata del rapporto di lavoro, quanto piuttosto alla natura "sostanzialmente pubblica" della persona giuridica alle cui dipendenze esso si costituisce (cfr. in tal senso Corte cost. nn. 29 del 2006, 52 e 68 del 2011), nel senso che il soggetto che figura quale datore di lavoro, indipendentemente dalla forma con cui opera nel mondo giuridico, imputa alla finanza pubblica i risultati della sua attività (cfr. Corte cost. n. 466 del 1993). E se è vero che, proprio per ciò, tale disposizione non è nemmeno sospettabile di violare la competenza esclusiva statale in materia di "ordinamento civile", di cui all'art. 117, secondo comma, lettera I), Cost., giacché non può in alcun modo dirsi volta ad introdurre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private (cfr. ancora Corte cost. n. 29 del 2006, che sulla scorta di tali argomenti ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 4, lettera f), I. r. Abruzzo n. 23/2004, che prevede che le società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, sono obbligate al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l'assunzione di personale dipendente), non è meno vero che l'effetto precipuo di codesta limitazione all'accesso all'impiego consiste nell'impossibilità che gli eventuali contratti a tempo determinato che siano stati illegittimamente stipulati con ARST possano essere convertiti in rapporti di lavoro a tempo indeterminato: la previsione legislativa di una concorsualità per le assunzioni non può infatti che impedire la conversione, dal momento che l'automatica trasformazione del rapporto precorso inter partes finirebbe per eludere le garanzie predisposte dall'obbligo del concorso a tutela dell'interesse pubblico (cfr. in tal senso Cass. nn. 11163 del 2008, 1308 del 2013 e, da ult., Cass. S.U. n. 4685 del 2015, in motivazione).

Va semmai aggiunto che la disposizione dell'art. 23, I. r. Sardegna n. 16/1974, nella misura in cui reca logicamente in sé la norma relativa all'impossibilità di conversione dei contratti a termine illegittimamente stipulati con ARST, con ciò introducendo una difformità di trattamento rispetto alla sanzione generale della conversione di cui al d.lgs. n. 368/2001, non appare nemmeno suscettibile di violare l'art. 3 Cost., avendo la Corte costituzionale già precisato, con riferimento all'analoga norma contenuta nell'art. 36, T.U. n 165/2001, che tanto è da escludersi in ragione della copertura costituzionale apprestata dall'art. 97 Cost. al principio dell'accesso all'impiego mediante concorso (Corte cost. n. 89 del 2003), da ritenersi forma generale e ordinaria di reclutamento per le figure soggettive pubbliche (nel senso anzidetto), a presidio delle esigenze di imparzialità e di efficienza dell'azione amministrativa (Corte cost. n. 363 del 2006). Ed egualmente è a dirsi rispetto alla direttiva comunitaria 1999/70/CE, rilevante come tertium comparationis rispetto a possibili violazioni degli artt. 11 e 117 Cost., avendo la Corte di Giustizia dell'Unione Europea chiarito che spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte agli abusi nella reiterazione dei contratti a termine e che queste ultime possono essere anche diverse dalla conversione del rapporto a tempo indeterminato, purché rispettino i principi di equivalenza e siano sufficientemente effettive e dissuasive per garantire l'efficacia delle norme adottate in attuazione dell'Accordo quadro recepito dalla direttiva cit. (v. da ult. C. Giust. UE, 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia; Id., 7 settembre 2006, C-53/03, Marrosu e Sardino; Id., 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo-, Id., 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler).

Corretta negli anzidetti termini la motivazione della sentenza impugnata, dovendosi ritenere estranei all'odierna materia del contendere i riferimenti in essa contenuti agli artt. 5, d.l. n. 702/1978, e 8, I. n. 153/1980, sono parimenti infondati il quarto e il quinto motivo, con i quali, come detto, il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia dato in specie applicazione all'art. 32, I. n. 183/2010, liquidandogli i danni patiti nella misura minima prevista dalla disposizione citata.

Va premesso, al riguardo, che le Sezioni Unite questa Corte, con riferimento all'analoga norma dell'art. 36, T.U. n. 165/2001, hanno già avuto modo di chiarire che nell'ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest'ultima, infatti, è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i parametri costituzionali che secondo quelli comunitari (Cass. S.U. n. 5072 del 2016).

Considerato che tali principi possono senz'altro estendersi, da un punto di vista soggettivo, alle fattispecie in cui la conversione non può operare in ragione della natura pubblica in senso sostanziale del soggetto che figura quale datore di lavoro, deve poi rilevarsi che, avendo la Corte di merito accertato che nella specie è stato stipulato un unico contratto a termine, non è neppure ipotizzabile la necessità che la misura risarcitoria prevista dall'ordinamento per il caso che il lavoratore illegittimamente assunto a termine lamenti danni da perdita di chance o di altro genere sia affiancata da una disciplina agevolatrice dell'onere probatorio analoga a quella che le Sezioni Unite di questa Corte hanno rinvenuto nell'art. 32, comma 5, I. n. 183/2010: detta disciplina di favore, infatti, si giustifica in relazione alla necessità di garantire efficacia dissuasiva alla clausola 5 dell'Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE (Cass. S.U. n. 5072 del 2016, cit.) e, concernendo quest'ultima la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti o rapporti a termine, non può logicamente trovare applicazione alcuna nell'ipotesi in cui l'illegittimità concerna l'apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro.

Segue da quanto sopra che la sentenza impugnata resiste alle censure mossele con il quarto e il quinto motivo, non potendo, per un verso, darsi ingresso alla pretesa di parametrare il danno a quello subito da un lavoratore licenziato e non avendo, per altro verso, parte ricorrente congruamente censurato la sentenza impugnata sotto il profilo della inadeguatezza del risarcimento liquidato rispetto ai danni concretamente patiti e provati. Mentre, sotto altro profilo, il divieto di reformatio in peius, che in forza del principio dispositivo (art. 112 c.p.c.) e di quello dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) impedisce che la decisione dell'impugnazione possa essere più sfavorevole all'impugnante e più favorevole alla controparte di quanto non sia stata la sentenza gravata (cfr. da ult. in tal senso Cass. n. 4676 del 2015), non consente, in mancanza di ricorso incidentale di ARST s.p.a., di giudicare della conformità a diritto di una sentenza che ha riconosciuto a parte ricorrente un danno presunto pur in assenza dei presupposti indicati da Cass. S.U. n. 5072 del 2016, cit.-

II ricorso, pertanto, va rigettato. La novità e complessità della questione, che sotto più profili rientra nel contrasto giurisprudenziale che ha originato l'intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, suggerisce la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono invece i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.