Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 19 aprile 2017, n. 9869

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Affitto d’azienda - Inquadramento inferiore - Mutamento di mansioni - Tacito consenso

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d'appello di Perugia, con sentenza dell'11/8/2014, confermò la decisione del giudice di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da B. G., diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al predetto il 2/5/2011 da S.r.l. A. G.

2. La sentenza impugnata riporta come di seguito i fatti di causa: il ricorrente aveva svolto dall'ottobre 2008 le funzioni di responsabile del servizio dedicato alla formazione, in qualità di quadro; nel novembre 2009 la società aveva preso in affitto l'azienda della Società A. B., concessionaria della V. per l'area di Foligno; ciò aveva determinato esigenze di integrazione tra la struttura di Perugia e quella di Foligno e a tal fine la società aveva stipulato un contratto di lavoro con M. S., cui aveva affidato la direzione dell'impresa; al termine del processo d'integrazione lo S. aveva assunto direttamente la gestione e la responsabilità della formazione, fino a quel momento attribuita al B., la cui posizione di lavoro veniva soppressa; l'azienda, quindi, aveva proposto ai B. l'incarico di responsabile delle relazioni con i clienti presso la struttura di Foligno, con inquadramento inferiore al precedente; in assenza di risposta, interpretando il silenzio come tacito consenso al mutamento di mansioni, l'azienda aveva disposto il trasferimento del predetto a Foligno a decorrere dal 2 maggio 2011, con i compiti già comunicati; il dipendente, tuttavia, aveva denunciato l'illegittimità del provvedimento e del trasferimento, invitando la società a revocare entrambe le disposizioni; la datrice di lavoro, quindi, aveva intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

3. La Corte territoriale ritenne infondato il rilievo mosso dal lavoratore riguardo alla mancata dimostrazione da parte della società dell'esistenza di un processo di ristrutturazione, con impossibilità di ravvisare la soppressione del reparto o dei posto di lavoro, ma, piuttosto, il mero trasferimento di mansioni da un dipendente ad un altro. Osservò che il riconoscimento dei giustificato motivo oggettivo, consistente nella soppressione del posto di lavoro, non era subordinato a un generale processo di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, potendo la modifica limitarsi alla soppressione della singola posizione lavorativa. Osservò che il giustificato motivo oggettivo era reale e non pretestuoso, poiché le mansioni assegnate al ricorrente erano state attratte alla competenza del direttore d'impresa, rimanendo irrilevante, poiché legittima, l'assegnazione ad altri dipendenti delle mansioni del prestatore licenziato. Quanto ai rilievi in ordine all'obbligo di repechage, osservò che il B. aveva rifiutato l'assegnazione di mansioni di livello professionale inferiore, la cui accettazione avrebbe potuto evitare l'interruzione del rapporto. Osservò che il lavoratore non aveva indicato in quale altra posizione dal contenuto equivalente alla professionalità da lui acquisita l'azienda avrebbe potuto impiegarlo. In proposito rilevò che, pur gravando sul datore di lavoro l'onere di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, la prova era da ritenere raggiunta nella specie, anche in considerazione del comportamento tenuto dalle parti ex art. 116 c.p.c., poiché il ricorrente si era limitato a un'affermazione generica dell'esistenza di altri e diversi compiti che egli avrebbe potuto utilmente svolgere.

3. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il B. con tre motivi. La società resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

 

l. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e/o errata applicazione dell'art. 3 e 5 I. 604/1966 in relazione all'art. 2697 c.c. e 360 n. 3 c.p.c. Osserva che l'iter argomentativo della Corte è errato e conduce a concludere che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo equivale a tutti gli effetti a un recesso ad nutum, dovendosi ritenere esclusa ogni forma di sindacato da parte dell'Autorità giudiziaria sulla legittimità del recesso. Rileva che è richiesto un accertamento circa l'effettività delle ragioni poste dal datore di lavoro a giustificazione della decisione di modifica delle mansioni, l'esistenza del rapporto di riferibilità causale dell'individuazione del posto da sopprimere rispetto al riassetto organizzativo, l'inesistenza di soluzioni alternative al licenziamento. Osserva che la circostanza che nell'anno 2001 parte datoriale aveva ritenuto di dover attrarre i compiti della formazione nelle mansioni del direttore S., a conclusione di una non meglio precisata riorganizzazione derivata dall'acquisizione della filiale di Foligno, peraltro intervenuta nel 2009, denotava la contraddittorietà e l'apparenza della motivazione stessa. Rileva che sulla reale sussistenza del motivo addotto deve svolgersi l'indagine da parte dell'Autorità giudiziaria per accertarne l'effettività e non pretestuosità. Evidenzia che l'iniziativa del demansionamento era stata accompagnata anche dal trasferimento, misura afflittiva perché Foligno è ubicato a distanza di 50 km dall'originaria sede, così rivelandosi la strumentalità dell'intera operazione in funzione del licenziamento.

1.2. Il motivo è privo di fondamento. Questa Corte ha avuto modo di affermare in plurime occasioni che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge 15 luglio 1996, n. 604, non richiede una ristrutturazione aziendale di ampia portata, essendo sufficiente che l'azienda proceda alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore (per tutte Cass. Sez. L, Sentenza n. 19616 del 26/09/2011, Rv. 619102 - 01); ciò perché, ad esempio, è intervenuta la soppressione della funzione cui il licenziato era addetto, o la cd. esternalizzazione della sua attività a terzi, o la ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, o l'innovazione tecnologica che rende superfluo l'apporto del lavoratore, con l'unico limite, in ossequio all'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 3353 del 1994; conf. Cass. n. 3899 del 2001; da ultimo Cass. n. 13516 del 2016) del caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente licenziato con altro lavoratore assunto a minor costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni. E' stato affermato, altresì, (Cass. Sez. L, Sentenza n. 19185 del 28/09/2016, Rv. 641379 - 01) che "il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della I. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente".

La descritta situazione è ravvisabile in concreto, poiché dall'accertamento in fatto compiuto dai giudici del merito, non censurato sotto il profilo del vizio motivazionale, si evince che la società ha proceduto ad attrarre alla competenza del direttore dell'impresa le mansioni già spettanti al lavoratore licenziato, nell'ambito di un riassetto organizzativo attuato in funzione di una più economica gestione. Quanto all'idoneità delle ragioni sottese al licenziamento a giustificarlo, il collegio aderisce al più recente orientamento espresso da questa Corte di legittimità (Cass. Sez. L - , Sentenza n. 25201 del 07/12/2016, Rv. 642226 - 01), secondo il quale la decisione in ordine al riassetto organizzativo e alle sue modalità è rimessa alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa entrare nel merito della scelta dei criteri di gestione dell’impresa, costituente espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la decisione imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato. Ciò è ancor più evidente (cfr. sent. da ultimo citata) in regime di operatività dell’art. 30, co. 1, della I. n. 183 del 2010, il quale prevede che, in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nella materie del lavoro privato e pubblico "contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di ... recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro ...". Una volta accertata, pertanto, l'esistenza di una ragione organizzativa o produttiva che riconduce la decisione datoriale alla giustificazione che la legge postula per l'esercizio del potere, non essendo consentita al giudice la facoltà di effettuare un giudizio comparativo tra più possibili soluzioni, selezionando quella che appare più confacente sotto il profilo organizzativo o produttivo e che connota la discrezionalità propria delle opzioni imprenditoriali, nessuna violazione della disciplina in materia di licenziamenti è ravvisabile.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione o errata applicazione dell'art. 3 I. 604/1966 e 360 n. 3 c.p.c. Rileva che risultavano soppresse solo una parte delle mansioni in precedenza attribuite, poiché permaneva in capo al lavoratore il ruolo, previsto dal decreto D.lgs. n. 626 del 1994, di garante della sicurezza del personale, con una serie di compiti e responsabilità previste dalla legge, incarico da svolgersi nell'interesse dell'imprenditore, così come le mansioni attinenti all'ecologia. Da ciò consegue che, prima di proporre il demansionamento, sarebbe dovuto essere proposto al lavoratore il part time in relazione all'attività come residuata.

2.2. Anche la seconda censura è infondata. Questa Corte di legittimità si è già espressa (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 11402 del 06/07/2012, Rv. 623171 - 01) nel senso che ai fini della configurabilità della soppressione del posto di lavoro integrante giustificato motivo oggettivo di licenziamento non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere quelle prevalentemente esercitate in precedenza e quindi tali da connotare la posizione lavorativa del prestatore di lavoro, potendo ravvisarsi la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, se del caso ridotta con l'adozione del part-time, soltanto ove le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell'ambito del complesso dell'attività lavorativa svolta, una loro oggettiva autonomia. In conformità all'esposto orientamento la Corte territoriale, con apprezzamento in fatto insindacabile in questa sede e incensurato sotto il profilo del vizio di motivazione, ha dato conto della marginalità delle funzioni residuate in capo al lavoratore, apprezzandole come di per sé insufficienti a consentire la permanenza dello stesso in azienda, sia pure in regime di part time.

3. Con l'ultimo motivo il ricorrente deduce violazione e/o errata applicazione dell'art. 3 I. 604/1966 in relazione all'art. 2697 c.c. e 360 n. 3 c.p.c. Rileva che la parte datoriale non ha provato il suo assunto circa l'inesistenza in azienda di posizioni equivalenti residue e che è stata rigettata la richiesta del lavoratore di acquisire il libro unico del lavoro che avrebbe consentito una verifica al riguardo. Osserva che, trattandosi di impresa di dimensioni consistenti e possedendo il datore di lavoro tutti i dati aziendali, al contrario del lavoratore, la posizione di quest'ultimo quanto alla prova era ben più onerosa.

l.La doglianza è fondata. Il collegio, invero, aderisce all'orientamento (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 5592 del 22/03/2016, Rv. 639305 - 01), secondo il quale in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di "repechage" del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, talché spetta al datore di lavoro, il quale può opportunamente fruire anche delle opportunità offertegli dalla vicinanza della prova, essendo lo stesso il detentore delle scritture aziendali, dimostrare la mancanza di possibilità di reimpiego del lavoratore in posizioni dal contenuto equivalente a quella soppressa in termini di professionalità acquisita. In attuazione di tale principio non può essere ritenuta sufficiente di per sé sola, ai fini dell’integrale adempimento degli obblighi di repechage, la proposta di assegnazione del lavoratore a mansioni di livello professionale inferiore.

4. Per le ragioni esposte, in accoglimento della terza doglianza, il ricorso va accolto. Di conseguenza la sentenza va cassata, con rinvio al giudice del merito, il quale si atterrà ai principi enunciati e provvederà, altresì, sulle spese relative al giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il primo motivo e il secondo, accoglie il terzo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.