Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 gennaio 2017, n. 623

Licenziamento - Obbligo di comunicazione dei motivi - Sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato - Onere della prova

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 22 dicembre 2010, la Corte d'Appello di Torino, in parziale riforma della decisione non definitiva resa dal Tribunale di Saluzzo, accoglieva la domanda proposta da R. P. nei confronti di L'Edilizia Moderna di R. & C. S.n.c. avente ad oggetto, previa declaratoria della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, peraltro riconosciuto solo dal settembre 1994, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo perché intimato in violazione dell'obbligo di comunicazione dei motivi, tuttavia circoscrivendolo alla data di presentazione del ricorso, detratto l’aliunde perceptum in relazione al detto periodo e rigettava le domande aventi ad oggetto il risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti all'infortunio in itinere occorsole il 29.7.2003, alle molestie sessuali subite e ai denunciati comportamenti mobizzanti (con restituzione delle retribuzioni trattenute a titolo di multa per le sanzioni disciplinari irrogate ma non applicate).

La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto essere rimaste sfornite di prova tanto la deduzione relativa alla sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dal giugno 1994. quanto quella relativa al superamento dell'orario part-time concordato con l'azienda a partire dal 2.11.2005; parimenti non provata la pretesa relativa alle retribuzioni trattenute in occasione dell’infortunio in itinere del 29.7.2003; ancora non provate né le asserite mansioni superiori né il lamentato demansionamento conseguente alla sua adibizione al solo lavoro interno all'azienda, avendo in ogni caso la lavoratrice costantemente svolto mansioni di commesso alla vendita al pubblico; non dovute le somme addebitate alla lavoratrice a titolo di multa per le sanzioni irrogate, confermate come illegittime, in quanto le sanzioni stesse risultavano mai applicate; inconfigurabile in termini di molestie sessuali le attenzioni manifestate alla lavoratrice dal datore di lavoro; parimenti non riconducibili a mobbing i comportamenti denunciati dalla lavoratrice; inefficace e non discriminatorio il licenziamento per non aver il datore di lavoro dato riscontro alla richiesta di comunicazione dei motivi; limitato alla data di presentazione del ricorso, per essere la domanda meramente risarcitoria ivi formulata espressiva di una volontà di rinuncia al posto di lavoro, il risarcimento spettante per l'inefficacia del licenziamento, da quantificarsi tenendo conto dell'aliunde perceptum.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la P. affidando l'impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la Società.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione della Raccomandazione 92/131 CEE del 27.11.1991 e dell'art. 26. d.lgs. 11.4.2006, n. 198, in una con il vizio di motivazione, lamenta a carico della Corte la non conformità a diritto e l'incongruità logica della statuizione resa in ordine alla non ravvisabilità nella specie di un'ipotesi di molestie sessuali a suo dire rilevando a questi fini il solo dato soggettivo del non gradimento da parte del soggetto passivo e non il carattere obiettivamente offensivo del comportamento.

Il secondo motivo è inteso a denunciare il vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all'apprezzamento delle risultanze istruttorie attestanti l'effettività delle avances di cui era stata fatta oggetto la ricorrente.

Il terzo motivo, con il quale la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., è inteso a censurare la statuizione resa dalla Corte territoriale in ordine alla ricorrenza nella specie di una ipotesi di mobbing a suo dire inficiata da un'erronea applicazione della nozione risultata ostativa al corretto apprezzamento dei comprovati comportamenti lesivi della personalità e dignità della lavoratrice.

L'impugnazione proposta riflette la complessità di una vicenda che, per quanto articolata su situazioni che ben possono risultare ed in effetti risultano diversificate sul piano della qualificazione giuridica - si chiede infatti l’accertamento di comportamenti illeciti riconducibili ad ipotesi di molestie sessuali e mobbing sfociato in un licenziamento illegittimo - si connota per la stretta interconnessione di quelle situazioni, rivelandosi suscettibile di una lettura non solo unitaria ma altresì fortemente influenzabile dall'approccio per cui opta colui che è chiamato a valutarla. E' possibile, infatti, spaziare dalla valorizzazione del profilo della protezione della lavoratrice dall'interesse a sfondo sessuale di uno dei titolari della Società e dalla reazione cui quella situazione la espone da parte dell'altro titolare della medesima Società, moglie del primo, percepita dalla lavoratrice come azione mobizzante spinta fino all'estrema conseguenza del licenziamento, alla valorizzazione, in una prospettiva del tutto opposta, del profilo della protezione dell'interesse, certamente personale ma non scevro di implicazioni sul piano organizzativo, di uno dei soggetti datori di lavoro a contrastare la "distrazione" di natura sessuale dell'altro e, in funzione di ciò, a limitare, nell'esercizio del potere di direzione che gli compete, gli spazi di azione e di espressione della lavoratrice all'interno dell'azienda, palesandole in concreto una situazione di incompatibilità ambientale destinata a sfociare in un modo o nell'altro nell'interruzione del rapporto, situazione della quale la stessa lavoratrice mostra consapevolezza quando, nell’impugnare il licenziamento non avanza la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro.

A questa stregua, l'adesione della Corte territoriale a questa seconda opzione valutativa deve ritenersi idonea a sottrarsi alle censure qui avanzate dalla ricorrente.

In effetti, è a dirsi, innanzitutto, come non appaiano ravvisabili i vizi di violazione di legge e carenza di motivazione denunciati con il primo motivo, atteso che la Corte territoriale, lungi dall'incorrere nel travisamento della ratio della disciplina in materia di molestie sessuali, negando la rilevanza del dato soggettivo del mancato gradimento da parte della vittima delle attenzioni di tale natura rivoltegli, si volge ad escludere la riconducibilità stessa dei comportamenti denunciati, o meglio di quelli residuati all'esito dell'accertamento istruttorio, alla fattispecie delle molestie sessuali e ciò sulla base di considerazioni desunte dalla giurisprudenza di questa Corte che le censure mosse non valgono ad inficiare, risolvendosi così, inammissibilmente, nel proporre una diversa valutazione del materiale istruttorio.

Analoghe considerazioni possono valere con riguardo al secondo motivo, non riscontrandosi da parte della Corte territoriale il denunciato omesso esame, quale fatto decisivo per il giudizio, della circostanza relativi ai ripetuti accessi in azienda delle forze dell'ordine richieste del loro intervento dai protagonisti della vicenda e delle dichiarazioni raccolte in quelle occasioni, atteso che la Corte territoriale non manca di fare riferimento a quegli eventi e dall'atteggiamento tenuto dai militari intervenuti, sottolineando come questi, evidentemente valutando l'inconsistenza dell'accaduto, avessero sconsigliato alla ricorrente di procedere alla querela per molestie.

Non diversamente è a dirsi relativamente al terzo motivo, dovendosi ritenere che il rigetto da parte della Corte territoriale della domanda di risarcimento del danno da mobbing si giustifichi in relazione al peculiare approccio alla vicenda della Corte territoriale, del tutto opposto a quello prescelto dal giudice di prime cure, che ha portato la Corte a privilegiare la considerazione atomistica dei singoli episodi in base alla quale è giunta a ritenere i comportamenti costituenti, a detta della ricorrente, mobbing o insussistenti, o non provati, o pienamente legittimi (l'adibizione a lavori interni all'azienda), o non connotati da particolare animosità (le sanzioni pur ripetutamente irrogate ma mai applicate) o in qualche misura inevitabili, piuttosto che (ed è l’opzione del giudice di primo grado) accomunarli in una valutazione cumulativa per attribuire ad essi "una valenza di spregio volta all’espulsione della dipendente dall’ambiente di lavoro", opzione che, sorretta da una motivazione la cui congruità illogica non è messa in discussione dalle censure mosse dalla ricorrente, volte semmai, ancora una volta in- -ammissibilmente, a contrastarne le conclusioni sulla base di elementi istruttori diversamente apprezzati, risulta insindacabile in questa sede.

Il ricorso va dunque rigettato senza attribuzione di spese stante il contrastante esito dei giudizi di merito.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.