Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 26 maggio 2017, n. 13398

Rapporto di lavoro - Contratto a termine - Poste - Nullità - Conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato

 

Rilevato

 

che con sentenza 8 marzo 2010, la Corte d'appello di Roma dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato da Poste Italiane s.p.a. con A. M. P. per il periodo 9 febbraio - 31 maggio 2001, ai sensi dell'art. 25 CCNL 11 gennaio 2001 e la conversione del rapporto di lavoro subordinato in uno a tempo indeterminato con decorrenza dalla prima data, condannando la società datrice al ripristino del rapporto e al pagamento, in favore della lavoratrice a titolo risarcitorio in misura pari alle retribuzioni mensili di € 1.366,95 per dodici mensilità dal 18 maggio 2004, oltre rivalutazione e interessi: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le domande della lavoratrice, sul presupposto della risoluzione del rapporto per mutuo consenso;

che l'udienza originariamente fissata per il 6 aprile 2013 (in vista della quale la controricorrente aveva depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.) e stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle sezioni unite di questa Corte sulle ordinanze di rimessione nn. 14340/15 e 15705/15; che è stata depositata memoria da A. M. P.;

 

Considerato

 

che il ricorso, in via preliminare, deve essere ritenuto tempestivo, siccome notificato entro il termine annuale dalla pubblicazione della sentenza impugnata (8 marzo 2010), ai sensi dell'art. 327, primo comma c.p.c., nel testo vigente ratione temporis:

da computare, per il noto fenomeno di scissione degli effetti della notificazione a mezzo del servizio postale per il notificante e il destinatario (Cass. s.u. 26 luglio 2004, n. 13970; Cass. 3 luglio 2014, n. 15234; Cass. 24 aprile 2015, n. 8395), alla data di consegna per la notificazione (4 marzo 2001) e non di suo ricevimento (10 marzo 2011);

che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 3 I. 230/1962, per inversione dell'onere probatorio del rispetto della clausola di contingentamento dal lavoratore, cui correttamente incombente, al datore di lavoro (primo motivo); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., in riferimento alla mancata ammissione, neppure giustificata, della prova orale dedotta, a completamento di quella documentale, ritenuta inidonea pure a fronte di una generica eccezione della lavoratrice, senza neppure ricorso ai poteri istruttori d'ufficio (secondo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 25 CCNL 2001 e 23 I. 56/1987, per inidoneità dell'inosservanza della clausola di contingentamento ad incidere direttamente sul contratto di lavoro a termine individuale, con la sanzione della sua nullità, essa piuttosto rilevando sul diverso piano delle relazioni sindacali, con la conseguente sanzione risarcitoria della violazione dell'obbligo di comportamento (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099, 2697 c.c., per inesistenza di un obbligo retributivo a carico datoriale dalla data di messa in mora, in difetto di prestazione lavorativa, anziché dall'effettiva ripresa del servizio, né risarcitorio in favore del lavoratore e tenuto conto dell'applicabilità dell'art. 32, quinto comma I. 183/2001, quale ius superveniens (quarto motivo);

che ritiene il collegio che tutti i motivi debbano essere rigettati, salvo il quarto, nella parte relativa all'applicazione dell'art. 32, quinto comma I. 183/2001, quale ius superveniens, assorbita quella riguardante il regime previgente; che, infatti, il primo motivo è infondato, per la posizione, in tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine ai sensi dell’art. 23 I. 56/1987, dell'onere della prova dell'osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in base all'art. 3 I. 230/1962, dell'oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro (Cass. 14 marzo 2016, n. 4916; Cass. 10 marzo 2015, n. 4764; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1351; Cass. 28 giugno 2011, n. 14284);

che il secondo è infondato, per la chiara e argomentata risposta della Corte territoriale sull'inidoneità probatoria della deduzione tanto di prove orali, quanto documentali, giustificata da attenta disamina critica e argomentazione puntuale (a pg. 4 della sentenza), neppure specificamente confutata;

che l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, in quanto rimesso, involgendo un giudizio di opportunità, ad un apprezzamento meramente discrezionale del giudice di merito, è insindacabile in sede di legittimità, avendo la sentenza offerto adeguata spiegazione del rigetto dei mezzi istruttori relativi a punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione (Cass. 25 maggio 2010, n. 12717; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);

che il terzo motivo è pure infondato, per l'illegittimità dell'apposizione di un termine ad un contratto di lavoro stipulato con riferimento ad una fattispecie per la quale il contratto collettivo non contenga l'espressa indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, non corrispondendo ad un tipo legale di contratto a termine: posto che, se l'unica condizione per il legittimo esercizio della c.d. delega in bianco conferita dal legislatore alla contrattazione collettiva è quella della specifica indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, il difetto di tale specificazione non permette di considerare legittime le ipotesi di apposizione del termine a quelle fattispecie, pur previste dalla contrattazione collettiva, nelle quali appunto manchi la predeterminazione di una percentuale (Cass. 17 marzo 2014, n. 6108; Cass. 3 marzo 2006, n. 4677);

che invece è fondato il quarto motivo, in parte qua, per la ritenuta corretta interpretazione dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. nel senso che la violazione di norme di diritto possa concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perché dotate di efficacia retroattiva: in tal caso essendo ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta; neppure nel caso di specie sussistendo il limite del giudicato, precluso anche, qualora la sentenza si componga di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l'accoglimento dell'impugnazione nei confronti della parte principale determini necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, dalla proposizione dell'impugnazione nei confronti della parte principale, pur in assenza di impugnazione specifica della parte dipendente (Cass. s.u. 27 ottobre 2016, n. 21691);

che pertanto il ricorso deve essere accolto in relazione all'ultimo motivo nei limiti detti, rigettati i primi tre, con la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione, che dovrà limitarsi a quantificare l'indennità spettante all'odierna parte contro ricorrente ai sensi dell'art. 32 cit. per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (per tutte: Cass. 10 luglio 2015, n. 14461), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato (per tutte: Cass. 17 febbraio 2016, n. 3062);

 

P.Q.M.

 

Accoglie il motivo concernente l'applicazione dell'art. 32 I. 183/2010, rigettati gli altri; cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.