Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 settembre 2016, n. 19559

Rapporto di lavoro subordinato - Accertamento - Vincolo di soggezione del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro - Retribuzione prestabilita - Sussistenza

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d'appello di Torino, con sentenza resa pubblica il 23 gennaio 2015, ha confermato la decisione di primo grado che, in sede di opposizione avverso l'ordinanza resa ex art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012, aveva accertato la natura subordinata del rapporto intercorso tra la s.a.s. B. One di C. F. & C. e le lavoratrici M. A. e I. T., ma aveva respinto la domanda volta ad ottenere l'inefficacia del licenziamento orale asseritamente disposto nei loro confronti.

Per la cassazione di questa sentenza, nella parte in cui è stata ritenuta la natura subordinata del rapporto, propongono ricorso la società e F. C. sulla base di tre motivi. Resistono con controricorso le lavoratrici.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma n. 3 cod. proc. civ.), rilevando che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la società B. One e le due lavoratrici sopra menzionate.

Deducono che ai fini della subordinazione il potere direttivo del datore di lavoro deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'attività di vigilanza e di controllo nell'esecuzione della prestazione di lavoro; che le due lavoratrici erano libere di gestire l'esercizio di ristorazione in autonomia; che la previsione di remunerazioni predeterminate a favore delle medesime, quali socie lavoratrici, era irrilevante ai fini della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla "autonomia delle signore M. ed I. nella gestione della propria prestazione", rilevando che le medesime erano inserite all'interno della compagnie sociale "quali socie d'opera della B. One"; che esse prestavano la loro opera in un punto di ristorazione sito all'interno di un istituto scolastico, i cui orari di apertura e di chiusura venivano stabiliti dallo stesso Istituto; che erroneamente la Corte di merito aveva dato credito alle dichiarazioni di altra lavoratrice (sig.ra P.), non tenendo conto che il "ricorso" proposto dalla medesima nei confronti di essi ricorrenti era stato rigettato con sentenza passata in giudicato.

3. Con il terzo motivo i ricorrente denunciando "vizio di ultrapetizione circa la validità del contratto societario - erroneità della motivazione - violazione e falsa applicazione di norme di diritto", rilevano che con il ricorso introduttivo le lavoratrici avevano chiesto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto e l'annullamento del licenziamento. Il Tribunale prima e la Corte d'appello dopo, si sono pronunciati anche sulla validità del contratto societario, affermandone la nullità, violando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ed attribuendo alle lavoratrici un bene diverso da quello richiesto, peraltro attraverso un rito, cosiddetto Fornero, che "ha un oggetto tipico fissato dalla legge".

4. Il primo motivo non è fondato.

La Corte di merito ha preso in esame le modalità del rapporto intercorso tra la società ricorrente e le lavoratrici, pervenendo alla conclusione che esso aveva natura subordinata.

Dopo aver rilevato che, per taluni periodi, il rapporto non era stato in alcun modo regolarizzato e, per altri, che le lavoratrici avevano formalmente lavorato quali "socie accomandatarie d'opera", la Corte anzidetta ha ritenuto che fossero ravvisabili nella specie gli elementi della subordinazione, tenuto conto che dalla istruttoria svolta ed in particolare dalla prova testimoniale era emerso che il C. era sostanzialmente il titolare dell'impresa; che costui retribuiva le lavoratrici non in proporzione alla partecipazione sociale (1% per entrambe) ma con retribuzioni differenziate, non compatibili con l'asserita natura di ripartizione degli utili; che era il C. a stabilire in quale dei bar gestiti dalla società dovesse essere resa la prestazione da parte delle lavoratrici; che era il C. che stabiliva gli orari di lavoro e che spostava i lavoratori da un bar all'altro; che era irrilevante che il medesimo fosse pochissimo presente al bar, essendo la sig.ra M. pacificamente responsabile del bar; che le mansioni svolte dalle lavoratrici non erano tali da richiedere direttive continue o controlli; che esse erano inserite nell'organizzazione datoriale ed assoggettate ai poteri direttivi e di controllo del datore di lavoro.

Alla luce di questi elementi, non è dato cogliere in quali violazioni di legge sia incorsa la sentenza impugnata, la quale, nell’afferma re la natura subordinata dei rapporti, ha applicato i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha costantemente affermato che il criterio per distinguere il rapporto di lavoro subordinato dagli altri rapporti in cui sia dedotta un'attività lavorativa è rappresentato dalla subordinazione, intesa come vincolo di soggezione del lavoratore al potere organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo del datore di lavoro; solo quando tali caratteri non siano agevolmente apprezzabili a causa del concreto atteggiarsi dei rapporto occorre far riferimento ad altri criteri, complementari e sussidiari - come l'osservanza di un orario predeterminato, il versamento di una retribuzione prestabilita, la continuità della prestazione, le direttive e i controlli sull'esecuzione di essa, il coordinamento dell'attività all'assetto organizzativo dato all'impresa dal datore di lavoro, l'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale -, i quali, benché privi di valore decisivo se individualmente considerati, ben possono essere valutati globalmente quali indizi.

Nella specie la Corte di merito ha valutato tutti detti elementi pervenendo alla conclusione che i rapporti di lavoro per cui è controversia avevano natura subordinata.

5. Il secondo motivo è inammissibile, oltre che infondato.

I ricorrenti indicano quale fatto decisivo dì cui la Corte di merito avrebbe omesso l'esame "l'autonomia delle signore M. ed I. nella gestione della propria prestazione".

In proposito deve osservarsi che l'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez, Un. n. 8053/14).

Nella specie non solo i ricorrenti non hanno indicato tali elementi, ma la censura è totalmente infondata, avendo la Corte dì merito escluso l'autonomia delle prestazioni per le ragioni dedotte sub n. 4.

6. Infondato è infine il terzo motivo.

La Corte di merito nel respingere l'analoga censura proposta in sede di appello, con la quale era stato dedotto il vizio di ultrapetizione, ha evidenziato che la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha preso posizione sul contratto dì società tra le due lavoratrici e la società, non ha pronunciato ultra petitum, trattandosi di passaggio necessario ai fini dell'affermazione della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, affermazione che costituiva oggetto specifico della domanda della lavoratrici, le quali, oltre tutto, fin  dall'inizio avevano messo in luce la natura fittizia del contratto di società.

I ricorrenti censurano tale argomentazione, rilevando che le lavoratrici mai ebbero a formulare alcuna domanda volta al l'accertamento di una eventuale nullità del contratto societario, ma al riguardo non può che convenirsi con quanto affermato dai giudici di merito, atteso che l'accertamento della sussistenza di uno dei due rapporti escludeva l'altro.

Peraltro, la Corte di merito ha dato atto che le lavoratrici sin dall'inizio hanno sostenuto la fittizietà del rapporto societario, onde del tutto corretta e priva del dedotto vizio è la sentenza impugnata.

6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

I ricorrenti sono tenuti al pagamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso (art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi all'art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1.