Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 settembre 2016, n. 19179

Licenziamento - Per giustificato motivo oggettivo - Incentivo all’esodo - Accordo risolutorio

 

Svolgimento del processo

 

Il giudice del lavoro di MESSINA, adito da P.A.G. con ricorso del 19 ottobre 2005 per invalidare il licenziamento (per giustificato motivo oggettivo, connesso alla chiusura del cantiere, cui era adibito il ricorrente), intimatogli il 28 febbraio 2005 dalla S.r.l. S.B. (poi G.B. S.r.l. ) - alle cui dipendenze aveva lavorato dal 12.11.2001, inquadrato nel livello IV del c.c.n.l. di settore - accoglieva in parte la domanda, con conseguente tutela reale ex art. 18 L. n. 300/70 (secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile), rigettando invece le altre domande per le rivendicate differenze retributive.

La sentenza di primo grado, emessa il 26 ottobre 2009, veniva impugnata dalla società con ricorso del 19 ottobre 2005. La Corte di Appello di Messina, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava integralmente le domande dell'attore di cui al ricorso introduttivo depositato iL 10-10-2005, con sentenza n. 900 in data sette maggio - 14 giugno 2013, notificata il 26 luglio 2013, condannando il soccombente P. al rimborso delle spese relative ad entrambi i gradi dei giudizio, siccome ivi liquidate.

La Corte territoriale, premesso che nelle more il lavoratore aveva optato ex citato art. 18 per l'indennità sostitutiva in luogo della reintegrazione, riteneva preliminare l'esame del terzo motivo di appello, con il quale era stata reiterata l'eccezione di decadenza ex art. 6 L. n. 604/66, che non era stata però esaminata dal primo giudicante, ritenendolo però infondato, tenuto conto della documentazione al riguardo prodotta dal ricorrente.

Per contro, era fondato il secondo motivo di appello, con il quale era stata dedotta l'omessa declaratoria d'inammissibilità della domanda d'impugnativa del recesso, avendo il P., giusta appositi accordi, ricevuto la somma di euro 4.449,39 quale incentivo all'esodo, come da lettera della società sottoscritta pure dal lavoratore, il quale aveva anche dichiarato di aver percepito il danaro, sicché poteva ritenersi comprovata una proposta con conseguente accettazione dell'appellato, donde un accordo risolutorio volto ad un esodo anticipato così "come concordato", avuto altresì riguardo sul punto alle dichiarazioni rese dal teste P.G., ancorché de relato. Dunque, non poteva dubitarsi della volontà delle parti di porre termine al rapporto di lavoro, laddove era stata riconosciuta all'attore una somma ulteriore ed aggiuntiva rispetto a quanto dovutogli per t.f.r., di guisa che non poteva attribuirsi a tale dazione la contraddittoria funzione di liberalità, in base a quanto diversamente opinato dall'appellato.

Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione A.G.P. come da atto di cui alla relata di notifica in data 23-24 settembre 2013, affidato a due motivi:

1) nullità della pronuncia impugnata per motivazione illogica e contraddittoria (art. 360 n. 4 c.p.c.).

L'attribuzione di una somma di danaro quale incentivo all'esodo all’interno di una lettera di licenziamento per fine fase lavorativa non snatura l'atto di licenziamento, non ne fa venir meno la valenza giuridica e non priva il destinatario dei recesso del diritto d'impugnarlo ed è logicamente incompatibile con esso. L'intimazione di licenziamento per un preciso motivo previsto dalla legge, atto diretto a far cessare il rapporto per esclusiva volontà datoriale non si concilia con l'invito all'esodo, che presuppone la volontà del lavoratore. Soltanto le dimissioni del lavoratore possono prevedere una somma aggiuntiva pagata dal datore di lavoro per incentivare il lavoratore a rassegnare le dimissioni.

Nella specie la risoluzione del rapporto era avvenuta per licenziamento, e non già per dimissioni, non essendovi traccia di una simile volontà nei fatti che avevano portato alla perdita del posto di lavoro da parte del P., né che detta risoluzione fosse avvenuta per risoluzione consensuale, per cui sarebbe stato necessario non il recesso, ma un accordo realmente innovativo. In effetti, il rapporto era stato risolto a seguito di licenziamento per fine fase lavorativa nel cantiere di M., non potendo il riferimento contenuto nella lettera al preteso accordo portare a confondere l'atto, che aveva fatto cessare il rapporto, con un presunto accordo di cui non era stata fornita prova documentale, necessariamente ed inderogabilmente scritta, non valendo in proposito dichiarazioni testimoniali, né tanto meno la deposizione inattendibile resa dal suddetto P.. Per giunta, occorreva aver riguardo pure al comportamento successivamente tenuto, visto che l'attore aveva impugnato il licenziamento già il 29 marzo 2005, donde l'impossibilità di ipotizzare una qualsiasi tacita rinuncia.

2) violazione dell'art. 112 c.p.c. per vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, avendo la Corte territoriale statuito su di una domanda in effetti abbandonata o rinunciata, non essendo stata riproposta nelle conclusioni detratto di appello, tenuto conto delle conclusioni rassegnate a pagina 11 del relativo ricorso della società G.F.B. (in riforma dell'impugnata sentenza, rigettare perché inammissibili ed infondate le domande attrici; dichiarare inammissibile la domanda di reintegrazione per difetto del requisito dimensionale ...; decadenza dal diritto d'impugnare in licenziamento ex art. 6 L. n. 604/66; aliunde perceptum ...).

La G.B. S.r.l. ha resistito all'impugnazione avversaria mediante controricorso di cui alla relata di notifica a mezzo posta spedita il 17 ottobre 2013.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c. in relazione alla pubblica udienza fissata al 18 maggio 2016, nella quale è comparo il solo ricorrente, previ avvisi di rito ad entrambe le parti.

 

Motivi della decisione

 

Entrambi i suddetti motivi di ricorso vanno disattesi in base alle seguenti considerazioni.

Ed invero, il ricorrente non solo ha omesso di riprodurre, peraltro neanche altrimenti allegando il relativo documento (contrariamente alle prescrizioni dettate dagli artt. 366 e 369 del codice di rito in materia), la lettera, della cui asserita erronea interpretazione in effetti si è doluto, ma ha denunciato, per di più, quanto meno nell'intestazione del mezzo d'impugnazione, un vizio di motivazione ormai inammissibile e comunque non più consentito in base al nuovo testo (nella specie rettone temporis applicabile, risalendo la sentenza de qua al sette maggio / 14 giugno 2013) dell'art. 360, co. 1, n. 5 (nemmeno ex n. 4) c.p.c., laddove alla luce delle argomentazioni in proposito svolte sarebbe stato ammissibile il solo riferimento alle ipotesi di cui al n. 3 dello stesso art. 360 [violazione o falsa applicazione di norme di legge in tema di interpretazione dei contratti per quanto concerne il ritenuto accordo transattivo.

Cfr. tra l'altro, da ultimo, nelle more della pubblicazione di questa pronuncia, Cass. IlI civ. n. 11892 del 21/12/2015 - 10/06/2016, secondo cui in base al nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le

parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), neanche applicabile il vizio in astratto contemplato dal precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell'art. 132, n. 4, c.p.c. - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante: «...§4.

Il quarto motivo deduce "violazione e falsa applicazione delle norme di cui al combinato disposto degli artt. 132, IX comma, n. 4, c.p.c. e 115 e 116 c.p.c., In relazione all'art. 360, 1 comma, n. 5 c.p.c.".

La stessa Intestazione del motivo, là dove denuncia la violazione di norme del procedimento con riferimento al parametro dell'art. 360 n. 5 c.p.c., che si applica al ricorso nel testo sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. b) del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134 del 2012, palesa, prima ancora di procedere alla lettura della sua illustrazione, una incongruenza, atteso che non è dato comprendere come una violazione di norme del procedimento possa essere ricondotta al detto nuovo n. 5, che, com'è noto, evoca oggi il concetto dell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Concetto cui non è in alcun modo riconducibile la violazione di alcuna delle tre norme evocate, che, essendo tutte norme del procedimento possono essere oggetto soltanto di deduzione tramite il paradigma del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.

 

(....)

 

§4.3. Nel vigore del nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., secondo la lettura data dalle Sezioni Unite nelle citate sentenze, la riconducibilità del cattivo esercizio del prudente apprezzamento della prova ai sensi dell’art. 116 (città di quella non soggetta a regola di valutazione imposta dal legislatore: c.d. prova legale), sebbene nei limiti in cui poteva esserlo secondo i testi normativi del 1950 e del 2006, deve ora decisamente escludersi, atteso che detto vizio è stato così individuato dalle Sezioni Unite di questa Corte: «L'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.. Il ricorrente deve Indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi Istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico> rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Le stesse Sezioni Unite hanno soggiunto che: «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce del canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciatile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione». Anomalia questa che è riconducibile alla violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c..

§4.4. Ne segue che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, non essendo incasellabile né nel paradigma del n. 5 né in quello del n. 4 (per il tramite della deduzione della violazione del n. 4 dell’art. 132 c.p.c. nei termini ora indicati), non trova di per sé alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciagli con il ricorso per cassazione.

§4.5. Può semmai ipotizzarsi che il ricorrente in Cassazione possa svolgere considerazioni sul cattivo esercizio del detto potere non già sub specie di denuncia in sé e per sé di un vizio della sentenza impugnata, bensì solo in funzione e, quindi, come elemento, di un’attività di dimostrazione che il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l'abbia indotto in ultima analisi ad applicare erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio. Sicché il motivo di ricorso sia la denuncia di tate erronea applicazione. Si può dunque ipotizzare che dette considerazioni possano e debbano necessariamente incasellarsi solo come elemento di un ben più articolato quadro evidenziatore della deduzione di un error in iudicando ai sensi del n. 3 dell'art. 360 c.p.c. circa la noma applicabile ed applicata alta fattispecie.

Tale residua possibilità supporrebbe sempre l'argomentazione del cattivo esercizio non già con la prospettazione di una mera alternativa di apprezzamento limitata alla singola prova, bensì di un'alternativa non solo necessaria, come avveniva quando operava il vecchio n. S, quanto ad essa stessa, ma anche solo come punto di partenza per approdare alla censura in iure, essendo, dunque, ulteriormente necessario dimostrare come e perché l'apprezzamento corretto si sarebbe incasellato nel complessivo quadro probatorio, sì da rendere necessario - e non già solo possibile - appunto sul piano probatorio complessivo il risultato di una ricostruzione della quaestio facti del tutto diversa e, quindi, tate da giustificare come approdo argomentativo finale in iure quello che la fattispecie è stata sussunta erroneamente in iure sotto la norma che il giudice di merito ha applicato, sì da risultare dimostrato un error iuris sul diritto sostanziale con cui la fattispecie è stato deciso.

 

(...)

 

§4.6. Tanto premesso, passando allo scrutinio del motivo, si ribadisce nuovamente l'erroneità dell’approccio dell'intestazione del motivo, là dove pretende di ricondurre al nuovo n. 5 violazioni di norme del procedimento che in alcun modo possono esservi ricondotte.

§4.7. Passando, poi, alla lettura del motivo, peraltro, la sua esposizione non rivela in alcun modo la possibilità dell'esistenza di una sostanziale prospettazione della diretta violazione delle tre norme del procedimento evocate nei termini in cui sarebbe stata denunciabile secondo la giurisprudenza sopra ricordata. Prospettazione che, alla stregua di Cass. sez. un. n. 17931 del 2013, avrebbe permesso di valutare il motivo come dedotto ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c.. Infatti, la lettura del motivo non evidenzia né che il giudice di merito abbia violato l'art. 115 nel senso su indicato, né che abbia violato l’art. 116 c.p.c. attribuendo valore di prova legale a prove che non l'avevano o negandolo a prove che lo avevano, né una inesistenza della motivazione nei sensi di cui ai citati arresti delle Sezioni Unite.

OMISSIS>>.

D'altro canto, va pure ricordato il principio di diritto - v. tra le altre Cass. lav. n. 22068 del 22/10/2007 - secondo cui in tema di transazione stipulata dal datore di lavoro e dal lavoratore finalizzata all'esodo incentivato di quest'ultimo, l'Interpretazione delle relative disposizioni contrattuali è riservata al giudice di merito, le cui valutazioni soggiacciono. In sede di legittimità, alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione coerente e logica, gravando sul ricorrente l'onere di indicare i canoni di ermeneutica violati e le ragioni dell'asserita incongruità e incompletezza della motivazione. Conforme Cass. lav. n. 9012 del 05/06/2012. In senso analogo v. anche Cass. lav. n. 18760 del 26/09/2005, secondo cui l'indagine compiuta dal giudice di merito volta a stabilire l'oggetto ed i limiti di una transazione, involge un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale e per vizi logici.

V. inoltre Cass. lav. n. 12211 del 06/06/2011, secondo cui in tema di transazione stipulata dal datore di lavoro e dal lavoratore occorre indagare se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all’ "lncertus litis eventus" - anche solo per una parte del contenzioso - senza che, tuttavia, sia necessaria l'esteriorizzazione delle contrapposte pretese, né che siano state usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può essere desunta anche dalla corresponsione di denaro da parte del debitore, accettata dal creditore dichiarando di essere stato pienamente soddisfatto e di non avere null'altro a pretendere, se possa ritenersi che essa esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa, ferma restando l'inammissibilità della prova testimoniale diretta a provare un diverso contenuto del rapporto transattivo. Quanto poi ai requisiti dell’aliquid datum" e dell' "aliquid retentum", essi non sono da rapportare agli effettivi diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni, e pertanto non à necessaria l'esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni. Nella specie, relativa ad un accordo transattivo con cui era stato riconosciuto un incentivo per le dimissioni rassegnate dal lavoratore, questa Corte, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto la correttezza della decisione del giudice di merito, che aveva valutato le prove orali assunte solo nella misura in cui erano dirette a convalidare e chiarire il contenuto del negozio transattivo, ritenuto funzionale a reintegrare il lavoratore dei mancati redditi provenienti dalla sua attività all'interno della società a causa della cessazione anticipata del rapporto].

Assolutamente inconferente, infine, appare il secondo motivo d'impugnazione, laddove non solo il ricorrente ha omesso di precisare sufficientemente la portata ed contenuto dell'atto di appello, di cui ha riprodotto le sole conclusioni, ma ha anche ignorato quanto, tra l'altro, precisato dalla sentenza di secondo grado, che menzionava tutti i motivi posti a sostegno del gravame, tra cui anche il secondo, che quindi riteneva fondato in ordine all'accordo di cui sopra. Non si comprende, quindi, l'asserita violazione del citato art. 112, visto che parte ricorrente omette di precisare completamente quale sarebbe stata la domanda da ritenere abbandonata o rinunciata, laddove come si è visto la Corte di Appello ha pronunciato conformemente alla prima richiesta delle conclusioni rassegnate dall'appellante, avendo per l'effetto integralmente riformato la gravata sentenza, con il rigetto di ogni domanda di parte attrice, pur motivatamente rigettando la preliminare eccezione di decadenza, condannando di conseguenza il soccombente alle spese di lite.

Pertanto, Il ricorso va respinto.

Tenuto conto, peraltro dell'alterno esito del giudizio di merito, si ravvisano valide ragioni per compensare le spese di questo giudizio tra le parti.

Sussistono, d'altro canto, ad ogni modo i presupposti per il versamento dell'ulteriore contributo unificato da parte del ricorrente, atteso il totale rigetto della sua Impugnazione.

 

P.Q.M.

 

RIGETTA il ricorso e dichiara compensate tra le parti le relative spese.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.