Giurisprudenza - TRIBUNALE DI CATANIA - Ordinanza 17 maggio 2019

Lavoro e previdenza - Impugnativa stragiudiziale del licenziamento - Inefficacia dell'impugnazione se non seguita, entro centottanta giorni, dal deposito del ricorso o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato - Mancata previsione, tra gli adempimenti idonei a impedire l'inefficacia, del deposito del ricorso cautelare ante causam ex artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. - L. 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), art. 6, co. 2

 

1. Premessa

Con ricorso cautelare ante causam, ex art. 700 codice di procedura civile, S.S., dipendente della società A. s.p.a., ha impugnato il provvedimento datoriale del 4 giugno 2018, con il quale, in ragione della chiusura dell'ipermercato di via S.G.R. sito in Catania ove era adibito dal 2002, veniva disposto il suo trasferimento presso la sede di Olbia.

 Ha dedotto l'illegittimità dell'atto impugnato, sia per la propria qualità di lavoratore appartenente alle categorie protette (in quanto invalido civile, già affetto da patologia neoplastica, sottoposta a continuo monitoraggio presso l'Ospedale Garibaldi di Catania, in collaborazione con l'Ospedale Gustave Roussy di Parigi), sia in ragione della sussistenza di diversi punti vendita siti in Sicilia (tra cui Catania, Misterbianco, Melilli, Palermo, Carini), anche di società collegate, ove la società avrebbe potuto impiegare la sua prestazione lavorativa, come peraltro previsto nell'ipotesi di accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali.

 Si è costituita la società convenuta la quale, nel contestare la fondatezza delle doglianze di parte attrice, ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità ed infondatezza del ricorso per intervenuta decadenza dall'azione giudiziale ai sensi dell'art. 32, comma tre, lettera c) della legge n. 183/2010, che richiama l'art. 6 legge n. 604/1966.

 In particolare, la società ha formulato due eccezioni di decadenza.

 Con la prima, ha eccepito che il ricorrente non avrebbe impugnato stragiudizialmente la comunicazione di trasferimento del 4 giugno 2018, ma solo quella di conferma del 28 luglio successiva, e che pertanto non avrebbe proposto valida impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni previsto dall'art. 6, comma 1, legge n. 604/1966.

 Con la seconda, ha eccepito che non risultava in ogni modo proposta impugnazione giudiziale di merito nel termine di decadenza di 180 giorni previsto dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, scaduto il 29 gennaio 2019, poiché parte ricorrente, entro tale data, non aveva depositato né il ricorso di merito ex art. 414 del codice di procedura civile, né aveva comunicato la richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato. L'odierna domanda cautelare ante causami, presentata il 28 dicembre 2018, doveva pertanto intendersi inammissibile ed infondata, in ragione del rapporto di strumentalità tra giudizio cautelare e sede di merito e dell'inidoneità del ricorso cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile ad impedire l'eccepita decadenza. 

La causa, dopo un rinvio disposto per tentare la conciliazione, con la formulazione da parte di questo ufficio di tre proposte transattive alternative rivelatesi infruttuose per mancato accordo tra le parti, è stata discussa all'udienza del 13 marzo u.s. ove è stata trattenuta per la decisione. 

A scioglimento della riserva assunta, si reputa che la controversia non possa essere decisa senza lo scrutinio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, in quanto richiamato dall'art. 32, comma terzo, lettera c), legge n. 183/2010, nella parte in cui esso non prevede che «l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni», oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche «dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex articoli 669-bis, 669-ter, 700 c.p.c.». 

Secondo gli indirizzi espressi dalla Corte costituzionale, la questione, ancorché sollevata nell'ambito di un giudizio cautelare, appare sotto tale profilo ammissibile in quanto allo stato non risulta esaurita la potestas iudicandi, né questa può ritenersi tale con l'emanazione della misura cautelare interinale che viene emessa con separato atto, contestualmente al presente provvedimento, la quale è provvisoria e rimarrà efficace fino alla Camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale ed è quindi da intendersi condizionata agli esiti dello scrutinio di costituzionalità richiesto (in tal senso, Corte costituzionale 9 maggio 2013, n. 83; Corte costituzionale, 30 gennaio 2018, n. 10). 

2. Rilevanza della questione.

2.1. Ricostruzione del quadro normativo applicabile e del diritto vivente.

Al fine di comprendere la rilevanza della questione, appare utile effettuare una breve ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

L'atto datoriale avversato dalla parte ricorrente è il trasferimento ex art. 2103 del codice civile del 4 giugno 2018 con il quale essa è stata assegnata dalla sede di Catania a quella di Olbia.

A seguito della legge 4 novembre 2010, n. 183, i trasferimenti sono assoggettati al regime decadenziale ivi previsto per i licenziamenti.

In particolare, l'art. 32, comma 3, lettera c), legge n. 183 cit., prevede che le disposizioni di cui all'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 dello stesso articolo, si applicano anche al trasferimento ai sensi dell'art. 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento.

 L'art. 6 legge n. 604/1966, come ulteriormente modificato dall'art. 1, comma 38, legge n. 92/2012, ed applicabile ratione temporis, prevede al primo comma che «Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso» e al secondo comma che «L'impugna ione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

 In merito all'interpretazione del secondo comma della disposizione in esame, si rileva un indirizzo fermo, univoco e più volte affermato, della Sezione lavoro della Suprema Corte di cassazione, secondo il quale la domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile non è idonea, ai sensi della predetta disposizione, a mantenere gli effetti dell'impugnativa stragiudiziale prevista nel primo comma dell'art. 6 legge n. 604/1966 e, dunque, ad impedire lo scorrere del termine previsto dall'art. 6, comma 2, legge n. 604 cit. 

Tale indirizzo si fonda sul convincimento che la disposizione, allorquando fa uso del termine «ricorso», intenda indicare il ricorso ordinario di merito (ex art. 414 del codice di procedura civile ovvero, per i licenziamenti per i quali è applicabile la legge n. 92/2012, il ricorso ex art. 1, comma 48, legge n. 92/2012) e non anche il ricorso cautelare ante causam ex articoli 669-bis e ss. del codice di procedura civile.

In particolare, con la sentenza 6 dicembre 2018, n. 31647, la Corte di cassazione, ribadendo il senso di precedenti arresti, ha pronunciato il seguente principio di diritto: «la proposizione di un procedimento cautelare ex art. 700 del codice di procedura civile, non è idonea a mantenere l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento effettuata ai sensi della legge n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, (come novellata dalla legge n. 183 del 2010, art. 32) essendo necessaria la proposizione di un giudizio ordinario, ossia di un ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile, nell'ambito del quale eventualmente proporre una istanza cautelare ex art. 700 c.p.c.».

 Poco prima, la stessa Sezione lavoro della Suprema Corte, con l'ordinanza del 15 novembre 2018, n. 29429, aveva ritenuto che «l'art. 6, comma 2, della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010, va interpretato nel senso che, ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, sono da considerare idonei il deposito del ricorso ai sensi dell'art. 414 c.p.c. sostituito, per le domande di impugnativa dei licenziamenti, dal ricorso di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della legge n. 92 del 2012) nella cancelleria del giudice del lavoro ovvero, alternativamente, la comunicazione alla controparte della richiesta di conciliazione o arbitrato; non è invece idoneo a tale scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c., perché, da un lato, la proposizione di una domanda di provvedimento d'urgenza è incompatibile con il previo tentativo di conciliazione e, dall'altro lato, perché l'assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all'art. 669-octies, comma 6, del codice di procedura civile, di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all'esito del procedimento cautelare vanificherebbe l'obiettivo della disciplina introdotta dalla legge n. 183 del 2010, di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento».

Ancora, si rileva l'ordinanza 7 novembre 2017 n. 26309, emessa dalla Suprema Corte, Sezione lavoro, secondo cui «la questione in rassegna è stata affrontata e risolta da questa Corte con la sentenza n. 14390 del 14 luglio 2016, che ha affermato che la legge n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, va interpretato - nel caso d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 st.lav. e successive modificazioni - nel senso che ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che nel termine previsto venga proposto ricorso secondo il rito di cui alla legge n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e seguenti, restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c.». 

Ad analoghe conclusioni erano giunte le pronunce della Corte nei precedenti successivamente richiamati (Cass. Sez. lav. 14 luglio 2016, sentenza n. 14390 e 5 ottobre 2016, sentenza n. 19919). Come anticipato, l'indirizzo sopra riportato si basa sul convincimento che l'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, nella parte in cui utilizza il termine «ricorso», faccia riferimento al ricorso ordinario ex art. 414 del codice di procedura civile ovvero, per i licenziamenti che vi sono assoggettati, al ricorso ex art. 1, comma 48, legge n. 92/2012. 

Ciò, secondo la Suprema Corte, sotto il profilo letterale, sarebbe desumibile dal fatto che l'adempimento previsto del «deposito del ricorso» è posto in alternativa alla «comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato», e che il tentativo di conciliazione non sarebbe concepibile rispetto ad una domanda proposta in via d'urgenza, essendo stato disciplinato dagli articoli 410 e ss. del codice di procedura civile come procedimento a cui ha facoltà di accedere, preventivamente, chi intenda proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 del codice di procedura civile (Cass. 15 novembre 2018, ordinanza 29429, cit., §14). 

Secondo la Suprema Corte, inoltre, il riferimento contenuto nell'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966 alla «possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso» non potrebbe che essere riferita ad un ricorso ai sensi dell'art. 414 del codice di procedura civile, il solo previsto per l'impugnazione dei licenziamenti all'epoca della legge n. 183/2010, e non ad un ricorso d'urgenza per il quale non operano rigide preclusioni (ibidem, § 17). 

Sotto il profilo logico, secondo l'indirizzo in esame, l'alternativa contenuta dall'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, sarebbe quindi prospettata tra la proposizione immediata di un ricorso ai sensi dell'art. 414 del codice di procedura civile (poi sostituito, per le domande di impugnativa dei licenziamenti, dal ricorso di cui all'art. 1, comma 48, legge n. 92/2012) oppure il previo avvio delle procedure di conciliazione ed arbitrato, senza che possa residuare spazio per il ricorso d'urgenza (ibidem, §15).

Sotto il profilo sistematico, ciò sarebbe ulteriormente comprovato dal fatto che il legislatore del 2010 ha introdotto un ulteriore termine di decadenza per l'ipotesi in cui il tentativo di conciliazione non abbia avuto esito positivo o la richiesta di arbitrato sia stata rifiutata, dovendo in tal caso intendersi che l'adempimento previsto (deposito del ricorso entro l'ulteriore termine di giorni 60) debba essere riferito necessariamente al ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile, sicché sarebbe anomalo se nel corpo della medesima disposizione il legislatore avesse utilizzato il termine ricorso in due accezioni diverse (ibidem, §16). 

Sotto il profilo teleologico, quanto sopra sarebbe confermato dal fatto che lo scopo della disciplina introdotta dalla legge n. 183/2010, di provocare in tempi ristretti, una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento, sarebbe completamente vanificato ove si riconoscesse efficacia impeditiva della decadenza anche al ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, posto che in tal caso l'instaurazione del giudizio di merito sarebbe solo eventuale ai sensi dell'art. 669-octies, comma sesto, del codice di procedura civile, come aggiunto dal decreto-legge n. 35/2005 (ibidem, §18). 

L'indirizzo espresso dalla Corte di cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza 25 maggio 2016 n. 10840 (1) , in materia societaria, stato quindi espressamente disatteso, in quanto ritenuto riferibile «ad una fattispecie (esclusione del socio lavoratore di società cooperativa) assolutamente diversa da quella in esame», e tenuto conto che «il principio ivi affermato non può condurre a superare l'inequivoco tenore letterale dell'art. 6, legge 604/1966» (così, Corte Cassazione Sez. lav. 15 novembre 2018, ordinanza n. 29429, cit., § 19, pag. 5).

 Tutte le pronunce sino ad ora pronunziate dalla Corte di cassazione, in merito all'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, ritengono che tale disposizione, al fine di impedire la decadenza, richieda la proposizione di un ricorso di merito (in alternativa alla comunicazione del tentativo di conciliazione o della richiesta di arbitrato), escludendo, quindi, che il ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile possa assumere alcuna rilevanza. 

Trattasi di un indirizzo privo di contrasti, stabile e costante ormai dalla metà del 2016, espresso attraverso svariate pronunce, ed esso appare quindi integrare gli estremi del «diritto vivente», ferma restando ogni definitiva verifica, al riguardo, da parte della Corte costituzionale. 

Al riferito orientamento hanno peraltro aderito la locale Corte di Appello di Catania, Sez. lav. (Corte appello Catania, Sez. lav., 28 febbraio 2017, n. 249), che ha sul punto riformato una sentenza di opposto avviso emessa da questa sezione nel 2016 (n. 3134) e, da ultimo, il Collegio reclami ex art. 669-terdecies di questo ufficio (ordinanza 3 novembre 2017, proc. 8479/2017 R.G.L.). Ciò posto, preso atto del diritto vivente, e di come pertanto la disposizione in esame vada intesa, si reputa necessario sollevare d'ufficio la presente questione, per i dubbi che la norma suscita sotto il profilo costituzionale. Come più volte evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, infatti, «in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo - se è pur libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi, essendo la «vivenza» della norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali - ha alternativamente la facoltà di assumere interpretazione censurata in termini di «diritto vivente» e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con parametri costituzionali (sentenze n. 191 del 2013, n. 258 e n. 117 del 2012 e n. 91 del 2004)» (Corte cost. 24 ottobre 2014 n. 242).

2.2. Rilevanza con riguardo alla fattispecie in scrutinio.

Come anticipato in premessa, parte convenuta, nel richiamare la disposizione prevista dall'art. 6 legge n. 604/1966, ha sollevato due eccezioni preliminari di inammissibilità ed infondatezza, per il fatto che parte lavoratrice non avrebbe proposto valida impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni (art. 6, comma 1, legge n. 604/1966) e per la circostanza che non avrebbe promosso ricorso di merito, né formulato la richiesta di conciliazione o arbitrato, entro il termine di 180 giorni (art. 6, comma 2, legge n. 604/1966). 

Trattasi di eccezioni di decadenza che, ove fondate, risulterebbero tali da potere definire il presente giudizio, atteso che l'eventuale inutile decorso dei termini previsti dall'art. 6, legge n. 604/1966 precluderebbe ogni disamina del merito della legittimità del trasferimento impugnato, che dovrebbe in tal caso considerarsi indiscutibile ed inoppugnabile, determinando inevitabilmente la reiezione della domanda cautelare. 

Ciò posto, va rilevato come la prima eccezione di decadenza appaia infondata, avendo parte ricorrente proposto valida impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni.

 Ed invero, la missiva all'uopo inviata il 2 agosto 2018 (doc. 4, fasc. ricorrente), nel rispetto del termine decorrente dal trasferimento del 4 giugno 2018, deve intendersi riferita non solo alla comunicazione del 28 luglio 2018 - con la quale, peraltro, la società ribadiva il disposto trasferimento - ma anche all'atto comunicato il 4 giugno cit., in quanto espressamente richiamato e ribadito nella comunicazione del 28 luglio 2018 (doc. 3, fasc. ricorrente). Si legge, del resto, nell'impugnazione stragiudiziale del 2 agosto 2018 la chiara volontà di impugnare «l'ordine di trasferimento presso la sede di Olbia» oggetto della comunicazione del 4 giugno. 

La prima eccezione di decadenza va, quindi, respinta. Per la soluzione da adottare in merito alla seconda eccezione di decadenza appare invece determinante lo scrutinio di costituzionalità richiesto.

 Ed invero, dopo la valida impugnazione stragiudiziale, parte ricorrente, sia pure nel rispetto termine di 180 giorni previsto dall'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, ha ritenuto di impugnare il trasferimento solo con la proposizione dell'odierno ricorso (depositato il 28 dicembre 2018), quest'ultimo qualificabile, alla luce della rubrica utilizzata in epigrafe, nonché del petitum e della causa petendi, come domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile. 

Non sono stati invece proposti né il ricorso di merito ex art. 414 del codice di procedura civile né la richiesta di conciliazione o di arbitrato entro la scadenza del termine ultimo del 29 gennaio 2019.

 La disposizione dell'art. 6, legge n. 604/1966, nella parte in cui richiede, ai fini della conservazione degli effetti dell'impugnazione stragiudiziale, la successiva impugnazione giudiziale, non esige espressamente che la parte lavoratrice promuova un ricorso di merito («L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro...»).

 Cionondimeno, come visto, il diritto vivente è nel senso contrario, ritenendo che l'adempimento richiesto del «deposito del ricorso» debba intendersi riferito al ricorso ordinario ex art. 414 codice di procedura civile, rimanendo esclusa conseguentemente l'idoneità della sola domanda cautelare ante causam ad impedire la decadenza.

 Alla luce di quanto precede, si comprende appieno la rilevanza della questione, posto che, ove questa venisse ritenuta fondata, anche la seconda eccezione preliminare sollevata dalla convenuta non sarebbe idonea a definire l'odierno giudizio (dovendosi in tal caso rigettare) e la domanda cautelare potrebbe essere utilmente esaminata ed esitata, non potendo peraltro escludersi, allo stato degli atti, e per come emerge da un primo sommario esame (v. provvedimento cautelare interinale emesso con separato atto), la sua verosimile fondatezza.

 Secondo la stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, «l'efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni consolidate per effetto di intervenute decadenze; tale limite, tuttavia, non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza» (Cass. civ. Sez. II ordinanza, 22 gennaio 2019, n. 1644). 

Nel caso di specie, la dichiarazione di illegittimità della disposizione in scrutinio, nel senso invocato, consentirebbe di esitare nel merito la domanda cautelare, posto che permetterebbe di ritenere rispettato il termine di decadenza dei 180 giorni ivi prescritto, dovendosi in tal caso concludere, attesi i descritti effetti retroattivi della pronuncia della Corte costituzionale, che anche il ricorso cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile promosso dalla parte ricorrente costituisca un adempimento utile per conservare gli effetti dell'impugnazione stragiudiziale tempestivamente proposta ai sensi dell'art. 6, comma 1, legge n. 604/1966 ed impedire quindi la decadenza prevista dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966. 

Ove invece la norma venisse reputata esente dai vizi di legittimità di cui si dubita, il giudizio, preso atto del diritto vivente formatosi nella materia, dovrebbe concludersi con la reiezione della domanda per evidente difetto di fumus boni iuris, precludendo l'eccezione di decadenza - da reputarsi in tal caso fondata ed assorbente - ogni ulteriore accertamento in ordine alla legittimità del trasferimento e l'emissione del chiesto provvedimento cautelare.

 Per completezza, va rilevato che, a fronte dell'eccezione di decadenza sollevata dalla convenuta ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, non risulta allegato alcuno dei presupposti che potrebbe giustificare un'eventuale rimessione in termini della parte ai sensi dell'art. 153, comma 2, codice di procedura civile, né questi potrebbero rinvenirsi nella formazione del descritto quadro giurisprudenziale, essendo stato all'uopo affermato che il principio dell'affidamento incolpevole non risulta leso dall'indirizzo di legittimità espresso con riguardo all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, «non essendo intervenuto alcun mutamento di giurisprudenza rispetto ad un precedente consolidato orientamento, bensì una statuizione di interpretazione di una normativa fortemente innovativa che richiedeva, seminai, l'osservanza del principio di precauzione (cfr. in argomento Cassazione n. 46871 2011)» (Cass. sez. lav. 6 dicembre 2018 n. 31647).

 Inoltre, secondo le Sezioni unite della Suprema Corte, «La rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (articoli 184-bis e 153 c.p.c.), ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti i caratteri dell'assolutezza e non della mera difficoltà e si ponga in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza, non è invocabile in caso di errori di diritto nell'interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate (Cass. civ. Sez. unite, 12 febbraio 2019, sentenza n. 4135), sicché, secondo gli stessi indirizzi di legittimità, è da escludersi che la scelta difensiva della parte ricorrente di proporre solo il ricorso cautelare, senza il ricorso di merito, possa giustificare un'eventuale rimessione in termini, e ciò ad ulteriore conferma della rilevanza della questione. 

3. La non manifesta infondatezza della questione.

L'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 dispone:

«L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo». Laddove si ritenga corretta la ricostruzione del diritto vivente operata sopra, la disposizione in esame, con riguardo ai trasferimenti (che non prevedono per la loro impugnazione riti speciali), deve leggersi nel senso che segue: «l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso [ordinario ex art. 414 c.p.c.] nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso [ex art. 414 c.p.c.]. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso [ex art. 414 c.p.c.] al  giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

 Si dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui essa non prevede che «l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni», oltre che dal deposito del ricorso ordinario ex art. 414 del codice di procedura civile o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche «dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex articoli 669-bis, 669-ter, 700 c.p.c.» per i seguenti motivi.

A) Irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione; violazione degli articoli 24, 111, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. 

Si dubita che la disposizione si ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, nonché con gli articoli 24, 111, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), per quanto di ragione. 

Al riguardo, va preliminarmente ricordato che la norma, non accordando alcun rilievo al ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile ante causam, impedisce che la proposizione di tale strumento possa mantenere gli effetti dell'impugnazione stragiudiziale ex art. 6, comma 1, legge n. 604/66, la quale, in assenza dell'utilizzo degli altri strumenti ivi indicati, diverrà inefficace decorso il termine di 180 giorni.

La norma, infatti, neppure prevede che il giudizio di merito possa essere instaurato successivamente alla definizione del giudizio cautelare entro un determinato termine, alla stregua di quanto dispone con riguardo all'ipotesi del tentativo di conciliazione o della richiesta di arbitrato in caso di rifiuto o mancato accordo. 

L'indirizzo espresso dalla Suprema Corte, sul punto, è chiaro nel ritenere che la proposizione della domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile «non è idonea a mantenere l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale... essendo necessaria la proposizione di un giudizio ordinario», oppure la comunicazione del tentativo di conciliazione o della richiesta di arbitrato (Cass. sez. lav. 6 dicembre 2018, n. 31647, cit.).

 La proposizione della sola domanda cautelare, quindi, non impedisce lo scorrere e la successiva maturazione del termine decadenziale previsto dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966. 

L'atto datoriale impugnato con il solo ricorso cautelare ex art. 700 codice di procedura civile ante causam, pur nel rispetto del termine di 180 gg., diverrà pertanto inoppugnabile decorso detto termine.

 Ciò determina il risultato, invero alquanto paradossale, di precludere al giudice della cautela, richiesta ante causam, di potersi pronunciare nel merito della controversia ove il termine decadenziale dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 scada nelle more del processo (ad es., dopo l'instaurazione del contraddittorio, nel corso della trattazione della fase monocratica, durante la trattazione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.), dovendo in tal caso, a fronte della relativa eccezione, dichiararsi l'inammissibilità della domanda cautelare per intervenuta - per quanto sopravvenuta - inoppugnabilità dell'atto e conseguente carenza di interesse al giudizio.

 Ed invero, non avendo la domanda cautelare alcuna incidenza ai fini impeditivi della decadenza, in assenza degli altri mezzi previsti dall'art. 6 comma 2, legge n. 604/1966, scaduto il termine, l'atto opposto diverrà inoppugnabile ed il giudice della cautela, a fronte della relativa eccezione, non potrà che prendere atto della sopravvenuta carenza di interesse della domanda cautelare e dunque della sua inammissibilità.

 Peraltro, che il termine ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 possa scadere nelle more del processo cautelare ante causam, come invocato anche dalla società resistente nel presente giudizio, è una circostanza facilmente verificabile, considerati i tempi necessari per la predisposizione della difesa tecnica per la proposizione del ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, per l'instaurazione del contraddittorio, per la celebrazioni delle diverse fasi che connotano il processo cautelare (monocratica e collegiale ex art. 669-terdecies, c.p.c.), per l'emissione da parte degli organi giudicanti dei relativi provvedimenti. Ulteriore conseguenza che la disposizione produce in questi casi è l'inammissibilità di ogni ulteriore ricorso avverso l'atto gravato, posto che la maturazione della decadenza dall'impugnativa ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, e l'inoppugnabilità dell'atto, preclude alla parte lavoratrice di coltivare ulteriori azioni giudiziarie. 

In definitiva, la disposizione, nel non considerare utile ai fini impeditivi della decadenza ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, il ricorso, ove proposto solo nelle forme dell'art. 669-ter, 700 del codice di procedura civile, anziché anche nelle forme dell'art. 414 codice di procedura civile, ha l'effetto di determinare l'inammissibilità di ogni ricorso avverso l'atto impugnato: quello già proposto ante causam, ancorché nel rispetto dei 180 giorni previsti, ed ogni altro ulteriore.

 Quanto sopra porta a dubitare della costituzionalità della disposizione, poiché, determinando una siffatta sanzione di inammissibilità per questioni di natura formale e di rito, con definitiva preclusione per la parte di poter coltivare il proprio diritto di difesa, appare prevedere una sanzione eccessivamente grave, sproporzionata ed irragionevole, rispetto agli obiettivi avuti di mira dal legislatore con la sua introduzione. 

La conseguenza che la disposizione determina, infatti, è quella di rendere definitivamente interdetta al lavoratore, per motivi meramente formali e di rito, e con riguardo agli atti più incisivi della sua sfera giuridica (licenziamento, trasferimento, etc.), ogni possibilità di avversare l'atto impugnato, nonostante parte lavoratrice si sia attivata tempestivamente con la proposizione di un mezzo idoneo, secondo l'ordinamento processuale, ad anticipare gli effetti del giudizio di merito (cfr. art. 669-octies, comma 6 e 8, c.p.c.) e a manifestare al datore di lavoro la sua volontà di ottenere la rimozione per via giudiziaria dell'atto già contestato in via stragiudiziale.

 Trattasi di conseguenza che, nell'ottica del bilanciamento degli interessi - da una parte, quello del datore di lavoro di sapere entro termini ristretti se il lavoratore intende promuovere azione giudiziaria avverso l'atto contestato in via stragiudiziale ai sensi dell'art. 6, comma 1, legge n. 604/1966, dall'altro quello del lavoratore di poter esplicare il proprio diritto di difesa avverso l'atto ritenuto illegittimo - appare eccessivamente severa, perché definitivamente preclusiva del diritto di difesa, ed ingiustificatamente sbilanciata in favore della parte datoriale. 

L'esigenza di certezza di quest'ultima, così come quella di impedire azioni speculative della parte lavoratrice a distanza di tempo, infatti, appaiono pienamente soddisfatte anche dalla proposizione della domanda cautelare ante causam nel termine previsto dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, data la sua idoneità a provocare una decisione anticipatoria degli effetti della sentenza di merito e considerata la possibilità riconosciuta alle parti (e dunque anche al datore di lavoro) di promuovere il giudizio di merito, ove ne abbiano interesse, anche subito dopo la definizione della fase cautelare, se non durante la celebrazione della medesima (art. 669-octies, comma 6, ult. parte, c.p.c.).

 La conseguenza che la norma comporta è, quindi, irragionevole anche ove si volesse ritenere che essa miri a provocare entro tempi celeri la definizione della causa con una sentenza di merito, cioè con un provvedimento idoneo ad acquisire i connotati del giudicato. Ed invero, la disposizione impedisce la disamina della domanda cautelare ante causam, consentendo la maturazione del termine di decadenza nelle more del processo cautelare, prima ancora che vi sia un esito dello stesso e prima ancora che le stesse parti possano decidere se accettarlo o proporre da subito il giudizio di merito per ottenere entro tempi celeri la definitiva regolazione dei propri rapporti con la sentenza.

 La disposizione, ancora, rende inutiler data financo l'eventuale ordinanza di accoglimento resa entro il termine ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, ove entro lo stesso non venga proposto ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile o non siano comunicati il tentativo di conciliazione o la richiesta di arbitrato, data la pacifica inidoneità del ricorso cautelare ante causam ad impedire gli effetti della decadenza di cui all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966.

 Ciò non può che incoraggiare comportamenti speculativi della parte datoriale.

 Ad esempio, il datore di lavoro, a fronte degli esiti sfavorevoli conseguiti nella fase cautelare, laddove il lavoratore ivi vittorioso non abbia coltivato anche il merito o la conciliazione o l'arbitrato, potrebbe decidere di attendere il decorso del termine di cui all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, per poi proporre il giudizio di merito al solo fine di chiedere ed ottenere con la sentenza di merito la revoca del provvedimento cautelare, in forza della sopravvenuta inoppugnabilità dell'atto resa possibile dalla irrilevanza della domanda cautelare ante causam e della conseguente decadenza ai sensi dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966.

Ciò appare quanto più irragionevole se si considera che, in caso di accoglimento della domanda cautelare, le esigenze di accelerazione e certezza dei rapporti perseguite dalla norma risultano pienamente soddisfatte attraverso una pronuncia giurisdizionale che interviene prima dello spirare degli stessi termini previsti dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 e che è capace di mantenere nel tempo i propri effetti (art. 669-octies, comma 6 e 8, c.p.c.), nulla impedendo al datore di lavoro di promuovere il giudizio ordinario, ove intenda effettivamente ottenere la rimozione dell'ordinanza o comunque acquisire definitiva certezza, con un provvedimento aventi i caratteri del giudicato, dei risultati conseguiti in sede cautelare. Le conseguenze prodotte dalla disposizione vanno quindi ben oltre l'obiettivo che il legislatore si era proposto, finendo per sancire un'immotivata e sproporzionata chiusura alla tutela giurisdizionale per motivi prettamente formali, per di più gravante sulla parte debole del rapporto, di regola in possesso di minori risorse e mezzi per poter apprestare le proprie difese, favorendo, dall'altra parte, comportamenti speculativi, contrari ai principi di buona fede e correttezza processuale, del datore di lavoro. 

Ciò, non solo appare violare il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., poiché introduce una sanzione eccessivamente grave e sproporzionata in ragione degli obiettivi perseguiti (su altra fattispecie, ma con principi che appaiono applicabili anche alla presente, si richiama Corte costituzionale sent. n. 241/2017), ma sembra porsi in contrasto anche con il canone del giusto processo ex art. 111 della Costituzione, nonché con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6, comma 1, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che consentono le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali solo se proporzionate allo scopo perseguito. Al riguardo, appare pertinente richiamare i principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (l'incidenza dei quali è stata chiarita dalla Corte costituzionale, sentenze nn. 368 e 369 del 2007), con i quali si è affermato che le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non sono compatibili con l'art. 6, comma 1 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le tante, Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008).

Tali principi ed arresti sono stati ribaditi dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione, la quale ha peraltro evidenziato che il principio del giusto processo, di cui al richiamato art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso, ma anche negli altri «valori in cui pure si sostanza il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio» (Cass. civ. Sez. Unite, 12 marzo 2014, sentenza n. 5700). 

Nel caso di specie, la disposizione in esame, non riconoscendo alcuna rilevanza alla proposizione della domanda cautelare ante causam, e consentendo la maturazione del termine decadenziale nelle more dello stesso processo cautelare, ovvero anche dopo la sua favorevole conclusione, implicando la sanzione dell'inammissibilità del ricorso cautelare e di ogni altro possibile ricorso avverso l'atto impugnato per motivi prettamente formali e di rito, appare determinare un'irragionevole, sproporzionata ed immotivata limitazione all'accesso alla tutela giudiziaria, e per questo appare in conflitto con gli articoli 24, 111, 117, della Costituzione, 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, oltre che con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.

B) Irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione. 

I dubbi di costituzionalità sopra prospettati sono ulteriormente confermati, sotto il profilo della ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si considera che la disposizione in esame, nel non riconoscere alcuna rilevanza alla domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile, la assegna invece espressamente non solo al ricorso ordinario ex art. 414 del codice di procedura civile, ma anche al tentativo di conciliazione o alla richiesta di arbitrato, cioè anche ad atti di natura stragiudiziale, propedeutici all'instaurazione di procedimenti facoltativi e non giurisdizionali - quali sono i procedimenti di conciliazione e arbitrato (art. 410 e ss. c.p.c) (2) -, che possono concludersi anche senza la definitiva regolazione dei rapporti tra le parti, come con il rifiuto o il mancato accordo per il relativo espletamento (eventi a partire dai quali la disposizione assegna un ulteriore termine di decadenza ai fini della proposizione del giudizio), ovvero con esiti a loro volta impugnabili innanzi al giudice e, dunque, non immutabili (per il lodo, v. articoli 412, comma 4., 808-ter c.p.c.), né equiparabili ad una sentenza di merito o ad un'ordinanza (art. 412, comma 2, del codice di procedura civile, secondo cui «il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato... produce tra le parti gli effetti di cui all'art. 1372 e all'art. 2113, 4 comma, del codice civile»). 

Appare singolare che la disposizione, nel riconoscere efficacia impeditiva della decadenza financo ad atti di natura stragiudiziale, quali la richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato, che potrebbero determinare ulteriori ingiustificate dilazioni della controversia, senza risolverla, non riconosca alcuna rilevanza al ricorso cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile, strumento appositamente previsto dal sistema processuale vigente per provocare, con sollecitudine, innanzi all'autorità giurisdizionale, la regolazione dei rapporti tra le parti. 

L'irragionevolezza di una tale previsione si coglie ancor di più ove si consideri che la norma non consente neppure che la domanda cautelare ante causam, proposta nel termine ex art. 6 comma 2, legge n. 604/1966, possa interrompere o sospendere i termini decadenziali anche solo ai fini dell'espletamento dello stesso processo cautelare (come dispone per i procedimenti di conciliazione o arbitrato), né prevede che il giudizio di merito possa essere instaurato successivamente alla definizione del giudizio cautelare entro un determinato termine, alla stregua di quanto riconosce nell'ipotesi in cui il tentativo di conciliazione o la richiesta di arbitrato non raggiungano l'esito sperato (rifiuto o mancato accordo).   Ciò non appare obiettivamente giustificabile. 

L'ordinamento processuale, infatti, accredita espressamente alle parti la facoltà di promuovere la domanda cautelare prima ed indipendentemente dal giudizio di merito (art. 669-ter , 669-octies, 6 comma, 700 c.p.c.).

 La domanda cautelare ante causam, inoltre, appare rivestire un ruolo quantomeno equipollente a quello svolto dal tentativo di conciliazione o dalla richiesta di arbitrato, in quanto anch'essa destinata, peraltro nella più solenne sede, quale è quella giurisdizionale, a manifestare al datore di lavoro l'interesse della parte lavoratrice di volere ottenere la rimozione dell'atto, già opposto ai sensi dell'art. 6, comma 1, legge n. 604/1966, e di voler provocare la risoluzione della controversia ancor prima dell'eventuale instaurazione di un giudizio ordinario.

 Peraltro, così come la conciliazione e il lodo arbitrale, anche l'ordinanza cautelare di accoglimento emessa a seguito del giudizio cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile si presta a regolare nel tempo i rapporti tra le parti, poiché, laddove il datore di lavoro soccombente non abbia ulteriore interesse ad ottenerne la rimozione per il tramite della proposizione del giudizio di merito, tale provvedimento raggiunge l'obiettivo di definire la questione controversa, avendo l'attitudine non solo di anticipare gli effetti dell'eventuale sentenza di merito, ma anche di mantenerli nel tempo indipendentemente dalla instaurazione di detta fase o dall'eventuale sua successiva estinzione (commi 6 e 8, art. 669-octies c.p.c.). 

D'altro canto, quale che sia l'esito del giudizio cautelare, ove il datore di lavoro volesse avere la definitiva certezza del risultato già conseguito, potrà promuovere fin da subito il giudizio di merito, esercitando una facoltà che l'ordinamento rimette nella piena disponibilità delle parti (art. 669-octies, comma 6, ult. parte, c.p.c.).

 Sotto tale profilo, non si può omettere di ricordare che una delle finalità della riforma del processo cautelare introdotta dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2006 n. 80, attraverso, peraltro, la previsione di cui all'art. 669-octies, commi 6 e 8, codice di procedura civile, era proprio quella di provocare una deflazione del contenzioso ordinario, ove la questione fosse stata già definita in sede cautelare e le parti non avessero ulteriori interessi da coltivare ai fini della proposizione del giudizio di merito (la cui instaurazione, nel regime previgente, era invece sempre necessaria ai fini della stessa conferma dell'ordinanza di accoglimento ex art. 700 c.p.c.).

 Il mancato riconoscimento della rilevanza della domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile, in seno all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, appare pertanto anche per tale motivo irragionevole, in quanto introduce un elemento di forte incoerenza nel sistema normativo, di fatto «disapplicando» l'istituto cautelare in esame e la sua capacità di anticipare gli effetti della sentenza di merito. E ciò proprio con riguardo agli atti datoriali che più di altri possono incidere nella sfera giuridica della parte lavoratrice (quali quelli attratti dal regime di cui all'art. 6, legge n. 604/1966, anche in forza del richiamo ad opera dell'art. 32, legge n. 183/2010, come i licenziamenti, i trasferimenti, etc.)  ed in relazione ai quali la parte debole del rapporto potrebbe avere maggiori necessità di ricorrere in via d'urgenza, senza avere i tempi tecnici per potere apprestare da subito un'adeguata difesa per il giudizio ordinario, quest'ultimo, come noto, soggetto a rigide preclusioni sia in punto di allegazioni sia in punto di deduzioni probatorie (articoli 414 del codice di procedura civile e ss.) e la cui predisposizione potrebbe esigere tempi e ponderazioni maggiori rispetto a quanto occorra per agire attraverso il rito cautelare. 

C) Violazione degli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in forza dell'art. 117 della Costituzione.

Si dubita ulteriormente della costituzionalità della disposizione, avendo motivo di ritenere che la stessa, incidendo negativamente sui principi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento, possa a sua volta compromettere il diritto di difesa della parte e il diritto della stessa ad un equo processo, con possibile violazione degli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, quest'ultima per mezzo dell'art. 117, comma 1, della Costituzione.

L'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, invero, senza contemplare specifiche deroghe al sistema cautelare vigente, né specifici riferimenti letterali alla tipologia del ricorso da proporre, nel non prevedere l'idoneità dello strumento cautelare ante causam ai fini in esame, appare ledere l'affidamento generato dal sistema processuale ex art. 669-bis e ss. codice di procedura civile in merito alla capacità del procedimento ex art. 700 codice di procedura civile di poter anticipare gli effetti della giudizio di merito e, dunque, di impedire eventuali decadenze ancorate alla mancata proposizione del ricorso.

Ed invero, neppure dopo l'art. 32, comma 1, legge n. 183/2010, che ha modificato l'art. 6, legge n. 604/1966, sono state introdotte limitazioni alla disciplina codicistica, nella parte in cui la stessa consente di promuovere la domanda cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile a prescindere dalla proposizione del merito e nella parte in cui riconosce all'ordinanza cautelare di accoglimento la forza di anticipare e mantenere gli effetti della sentenza, indipendentemente dalla proposizione del giudizio ordinario e financo anche in caso di sua successiva estinzione (art. 669-octies, comma 6, 8, c.p.c.). 

Lo stesso art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, se pur interpretato dalla giurisprudenza di legittimità come richiedente la proposizione del ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile, in base peraltro ad un'articolata esegesi di carattere sistematico e teleologico e non ad un'espressa previsione letterale, non reca previsioni specifiche a tal riguardo, né contempla parimenti limitazioni o deroghe. 

Ciò appare in grado di determinare una lesione del principio di certezza del diritto ovvero dell'affidamento generato dal sistema processuale vigente, e dunque del diritto di difesa e del diritto al processo della parte, laddove quest'ultima, come nel caso di specie, in forza degli articoli 669-bis e ss. codice di procedura civile e della genericità della formula dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, confidi (o sia indotta a confidare) nell'utilità del mezzo cautelare per l'impedimento della decadenza, salvo rendersi conto dell'inutilità dello stesso a decadenza maturata, dopo l'instaurazione del contraddittorio o nel corso del processo cautelare (per quanto concerne gli effetti della disposizione, si rinvia a quanto osservato sopra sub A) e B)). 

I dubbi di legittimità costituzionale qui proposti sorgono dalla considerazione che le norme limitative del diritto di difesa devono rispondere a principi di chiarezza ed inequivocità del loro contenuto, dovendo esprimere in maniera cristallina l'esistenza di eventuali limitazioni all'esercizio del detto diritto ovvero agli strumenti predisposti all'uopo dall'ordinamento.

I parametri costituzionali richiamati, ivi inclusa la norma interposta dell'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in forza dell'art. 117, comma 1, Cost., nel sancire la rilevanza costituzionale del diritto di difesa della parte, del diritto all'accesso al giudizio e ad un equo processo, portano appunto a ritenere che i predetti diritti fondamentali non possano subire limitazioni, se non quando queste siano ragionevoli ed espresse in modo inequivoco e chiaramente intellegibile, circostanza che obiettivamente non ricorre nel caso di specie.

 La descritta situazione di incertezza e di possibile lesione dei valori costituzionali sopra evidenziati non appare elisa dall'interpretazione della Sezione lavoro della Corte di cassazione, di cui sopra si è dato conto, perché quest'ultima, per quanto possa integrare i presupposti del diritto vivente, non ha inciso, né ovviamente poteva incidere, nella formulazione letterale della disposizione, per come promulgata e pubblicata ai sensi dell'art. 73 Cost., che continua a fare generico riferimento all'adempimento costituito dal «deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in finzione di giudice del lavoro», peraltro in modo del tutto sovrapponibile alla lettera dell'art. 669-bis del codice di procedura civile che disciplina la forma di presentazione delle domande cautelaci («la domanda si propone con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente»). La Corte di cassazione, inoltre, ha escluso che possa ravvisarsi il fenomeno del c.d. overruling, con la motivazione che non è intervenuto «alcun mutamento di giurisprudenza rispetto ad un consolidato orientamento bensì una statuizione di interpretazione di una normativa fortemente innovativa che richiedeva, semmai, l'osservanza del principio di precauzione (cfr. in argomento Cassazione n. 4687/2011)» (Cass., sez. lav., 6 dicembre 2018, n. 31647, cit.), con ciò confermando, perlomeno indirettamente, la situazione di incertezza generata dalla disposizione in scrutinio. 

Quest'ultima, peraltro, tra gli studiosi e in opere dottrinarie di oggettivo rilievo, ha ricevuto anche interpretazioni difformi rispetto a quelle prospettate dalla Sezione lavoro della Suprema Corte, essendo stato affermato che "Il «ricorso» al quale fa riferimento il secondo comma dell'art. 6, novellato dall'art. 32, è da intendersi come iniziativa giudiziaria di contestazione della legittimità del licenziamento senza alcuna limitazione di altro genere. Pertanto, il ricorso, il cui deposito vale a stabilizzare l'impugnativa del licenziamento, può anche essere diretto alla richiesta di una misura cautelare fondata sulla contestata legittimità del licenziamento» (citazione omessa in applicazione dell'art. 118, 3 comma, dis. att. c.p.c.).

D'altro canto, non sussistono in materia pronunce delle Sezioni unite e la medesima Sezione lavoro della Corte di cassazione, fino al 2016, sebbene con riferimento ad altra fattispecie normativa, ma con principi che apparivano poter costituire applicazione di canoni generali avuto riguardo al sistema cautelare vigente, aveva evidenziato che «dell'eventuale errore della parte nella scelta, all'atto della introduzione della lite, del rito applicabile non potrebbe mai discendere il decorso del termine di decadenza dalla azione... Il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art. 669-octies, comma 6, codice di procedura civile, aggiunto dal decreto-legge n. 35 del 2005, conv. con modif. nella legge n. 80 del 2005, che ha introdotto una previsione di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ha assunto, ad ogni effetto, le caratteristiche di un'autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva pur senza attitudine al giudicato, sicché la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza... Interpretare le norme sulla decadenza nel diverso senso di richiedere quale atto tipico previsto dalla legge per impedire la decadenza una azione idonea a dare luogo al giudicato  significherebbe estendere l'ambito di applicazione della decadenza laddove le norme che la prevedono sono di stretta interpretazione» (Corte di cassazione, Sezione lavoro, 25 maggio 2016 sentenza n. 10840) (3) . 

Tutto ciò a comprova della situazione di incertezza che l'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 può generare, tenuto conto della ambiguità della sua formulazione letterale e delle connessioni con il sistema cautelare vigente.

 Si dubita, pertanto, che tale disposizione possa rivelarsi incompatibile con gli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, quest'ultima per mezzo dell'art. 117, comma 1, Cost., nella misura in cui, non prevedendo, tra gli strumenti ivi contemplati, anche il ricorso cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura civile, la stessa appare in grado di pregiudicare i principi di certezza del diritto, dell'affidamento generato dal sistema cautelare vigente e, in definitiva, il diritto di difesa e al giusto processo della parte debole del rapporto. 

4. Interpretazione costituzionalmente orientata.

Tenuto conto dell'indirizzo univoco della Sezione lavoro della Suprema Corte, in ordine all'interpretazione dell'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, appare chiusa la possibilità di procedere attraverso una interpretazione adeguatrice della disposizione, posto che quest'ultima non è realisticamente percorribile in considerazione del descritto quadro giurisprudenziale. 

5. Misure cautelari provvisorie.

 Quanto all'istanza cautelare proposta dal ricorrente, come anticipato in premessa, si è proceduto con separato atto all'emanazione di una misura cautelare «interinale» fino alla successiva Camera di consiglio da tenersi a seguito della restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale e, dunque, da ritenersi con efficacia temporalmente limitata, «condizionata» agli esiti del giudizio di costituzionalità richiesto e inidonea a definire il giudizio (Corte costituzionale 9 maggio 2013 n. 83, Corte costituzionale, 30 gennaio 2018, n. 10, cit.).

 

(1) Secondo cui «Il rimedio cautelare, alla luce della nuova  struttura del procedimento ex art. 700 e degli altri  provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art.  669-octies, comma 6, c.p.c. aggiunto dal decreto-legge n. 35 del  2005, conv. con modif. nella legge n. 80 del 2005, che ha introdotto una previsione di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ha assunto, ad ogni effetto, le caratteristiche di un'autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva pur senza attitudine al giudicato, sicché la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello, che aveva pertanto ritenuto evitata la decadenza di cui all'art. 2553 del codice civile per l'impugnazione di delibera di esclusione di un socio da una cooperativa)».

(2) La natura facoltativa di tali istituti è desumibile dagli articoli 410 e ss. codice di procedura civile, per come modificati dalla legge n. 183/2010, nonché dall'abrogazione, ad opera della medesima, degli articoli 410-bis e 412-bis codice di procedura civile, che prevedevano il termine entro cui il tentativo di conciliazione doveva essere espletato e configuravano lo stesso come condizione di procedibilità della domanda.

(3) Come visto in punto di rilevanza, la Suprema Corte ha escluso l'applicabilità di tali principi con riguardo all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 (Corte cassazione Sez. lav. 15 novembre 2018, ordinanza n. 29429, cit., § 19, pag. 5).

 

P.Q.M.

 

Visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;

Visti gli articoli 3, 24, 111, 117, Cost., in relazione all'art. 6 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU);

 Ritenuto, in relazione alle suddette disposizioni, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966, nella parte in cui esso non prevede che «l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni», oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche «dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex articoli 669-bis, 669-ter, 700 c.p.c.»;

 Ritenuta la questione rilevante, per le argomentazioni indicate in parte motiva;

 Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

 Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. 09 ottobre 2019, n.41.