Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 settembre 2019, n. 22634

Lavoro - Collaborazione autonoma svolta in uno studio professionale - Qualificazione del rapporto come subordinato - Valutazione degli indici di subordinazione

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 2345 pubblicata il 12.10.2015, la Corte d'appello di Bari, in parziale accoglimento dell'appello proposto da D.S.G. e in riforma della sentenza di primo grado, ha qualificato come subordinato il rapporto di lavoro, svolto dal febbraio 1984 al maggio 2001, tra il predetto e l'avv. M.F. e condannato quest'ultimo al pagamento delle differenze retributive quantificate in euro 52.958,99, oltre accessori.

2. La Corte di merito ha premesso come fosse incontestata la natura subordinata del rapporto di lavoro nel periodo dal 1984 al 1990 e come non vi fosse prova del licenziamento, allegato dal M., che sarebbe intervenuto nel 1990.

3. Ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto anche per il periodo successivo al 1990 in base ai seguenti dati, emersi dall'istruttoria svolta: il D.S. lavorava all'interno dello studio professionale dell'avv. M., seguendo i clienti e le direttive di quest'ultimo che sottoscriveva gli atti (il D.S. non aveva il titolo di avvocato); osservava un orario di lavoro imposto dalla organizzazione dello studio legale; svolgeva mansioni di supporto a quelle dell'avvocato e sotto la vigilanza quotidiana di quest'ultimo.

4. Ha ricondotto le mansioni svolte dal febbraio 1984 al livello 4° del c.c.n.l. studi professionali e quelle esercitate dal gennaio 1985 al livello 3°; ha ricostruito l'orario di lavoro dell'appellante in base alle allegazioni del medesimo e alle deposizioni testimoniali, con la precisazione che lo stesso un sabato al mese e due mercoledì al mese era impegnato altrove come arbitro sportivo; ha respinto l'eccezione di prescrizione sollevata dall'avv. M. in ragione della durata ininterrotta del rapporto di lavoro dal 1984 al 2001 e della notifica del ricorso, idonea a interrompere la prescrizione, in data 8.1.2005, prima del compimento del quinquennio dalla data di cessazione del rapporto. Ha calcolato l'importo delle differenze retributive e del TFR in base all'esito della consulenza tecnica svolta.

5. Avverso tale sentenza l'avv. M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria, cui ha resistito con controricorso il sig. D.S.

6. Con comparsa del 23.1.2019 si è costituito l'avv. R.M., munito di procura speciale, quale nuovo difensore dell'avv. M., in sostituzione del difensore precedentemente nominato.

 

Ragioni della decisione

 

1. Col primo motivo di ricorso l'avv. M. ha dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.). Violazione dell'art. 115 c.p.c. relativamente ai fatti non contestati dalle parti costituite. Illegittimo rigetto dell'eccezione di prescrizione del diritto vantato per il periodo 1984-1990.

2. Ha sostenuto come l'avvenuta cessazione del rapporto di lavoro nell'agosto 1990 costituisse fatto allegato dal medesimo D.S. nel ricorso introduttivo di primo grado (pag. 3, punto 6 bis: "non è dato sapere perché sia stato licenziato ad agosto del 1990") e non in contestazione, quindi da considerare pacifico e non necessitante di prova, restando irrilevante la diversa versione resa dal D.S. nel ricorso in appello. Ha errato pertanto la Corte di merito nell'omesso esame del fatto pacifico dell'avvenuto licenziamento, idoneo a determinare l'accoglimento dell'eccezione di prescrizione.

3. Col secondo motivo l'avv. M. ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. Illegittima qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, per vizio logico nella valutazione degli indici di subordinazione. Inoltre, per violazione dell'art. 115 c.p.c. in ordine alla errata valutazione del materiale probatorio acquisito agli atti.

4. Ha definito insufficienti i criteri utilizzati dalla Corte d'appello al fine della qualifica come subordinato del rapporto di lavoro per il periodo successivo al 1990 e fino al 2001 ed ha rilevato come gli stessi fossero compatibili anche con una collaborazione autonoma svolta in uno studio professionale; ciò, in particolare, riguardo ai seguenti indici: l'utilizzo della struttura e delle apparecchiature dello studio, lo svolgimento dell'attività lavorativa all'interno dello stesso, la verifica da parte dell'avv. M. nelle riunioni serali dell'operato di ogni singolo collaboratore e dello stato di avanzamento delle pratiche in vista del risultato delle stesse, il coordinamento a grandi linee della successiva attività giornaliera mediante direttive programmatiche e non ordini precisi.

5. Ha criticato l'operato della Corte d'appello che avrebbe valorizzato indici non determinanti ai fini della subordinazione ma anzi sintomatici dell'autonomia del D.S. nell'organizzazione del lavoro (peraltro dallo stesso riconosciuta), rappresentati dalla facoltà di assentarsi dallo studio senza necessità di previa comunicazione al titolare e senza necessità di giustificazione alcuna; dai rapporti diretti del medesimo con i clienti, i periti assicurativi, i liquidatori; dalla mancanza di un orario di lavoro fisso e prestabilito; dalla cesura nel 1990 tra il primo e il secondo periodo di lavoro.

6. Col terzo motivo di ricorso l'avv. M. ha dedotto violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c.. Illegittima qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, per incompleto esame degli indici normativi di individuazione della natura del rapporto di lavoro. Violazione dell'art. 115 c.p.c. in ordine alla errata valutazione del materiale probatorio acquisito agli atti.

7. Ha criticato la sentenza per non aver tenuto conto di alcuni indici rivelatori della reale natura autonoma del rapporto, che pure avevano formato oggetto delle difese delle parti e di istruttoria; in particolare, la possibilità del D.S. di assentarsi per svolgere l'attività di arbitro, senza bisogno di informare il titolare e di richiedere permessi e la percezione di una retribuzione parametrata al 12,50% dei ricavi netti dello studio, con conseguente rischio del risultato dell'attività economica gravante sul medesimo.

8. Il primo motivo di ricorso è infondato.

9. In primo luogo, nella parte in cui denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione al nuovo testo dell'art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata, a pag. 4, ha esaminato il fatto allegato dal M., cioè il licenziamento che si assume intervenuto nel 1990, ed ha ritenuto che dello stesso non vi fosse traccia né vi fosse prova di una cesura del rapporto di lavoro.

10. Neppure può dirsi integrata la violazione dell'art. 115 c.p.c. quanto all'applicazione del principio di non contestazione.

11. Anzitutto, deve rilevarsi come tale principio operi in relazione a fatti che siano stati chiaramente esposti da una delle parti, negli atti processuali destinati a contenere le relative allegazioni, e non siano stati contestati dalla controparte; la parte che deduca tale violazione è tenuta ad indicare specificamente in quale atto processuale e in che termini abbia allegato il fatto che assume non contestato (cfr. Cass. n. 31619 del 2018; n. 22055 del 2017). Inoltre, la "non contestazione", in quanto vale ad escludere alcuni fatti dalla materia controversa e sottrarli quindi dal controllo probatorio, deve avere carattere specifico, quindi anche chiaro e non equivoco. (Cass. n. 13972 del 2002; S.U. n. 761 del 2002; n. 4556 del 2004).

12. Il ricorso in esame riporta unicamente che "a partire dal 1986 e fino ad agosto 1990 il D.S. aveva svolto l'attività di segretario ... percependo lire 1.500.000 mensili, ben oltre i livelli previsti da qualsiasi c.c.n.l.... Non appena regolarizzato il rapporto, il D.S. aveva chiesto di essere licenziato perché riteneva la qualifica dì segretario poco dignitosa...". A fronte di tali allegazioni sul presunto fatto di licenziamento, già di per sé assolutamente generiche, l'attuale ricorrente pretende di qualificare in termini di "non contestazione" l'espressione contenuta a pag. 3, punto 6 bis, del ricorso introduttivo di primo grado del D.S. secondo cui "Non è dato sapere perché sia stato licenziato ad agosto del 1990"; espressione quantomeno equivoca e come tale irrilevante ai fini del citato art. 115 c.p.c..

13. Il secondo e terzo motivo di ricorso, che si trattano congiuntamente perché in parte sovrapponibili e, comunque, connessi, sono anch'essi infondati.

14. Occorre anzitutto ribadire i confini del sindacato di legittimità sulla qualificazione del rapporto di lavoro operata dai giudici di merito, come tracciati da una consolidata giurisprudenza. E' costante l'affermazione secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, cioè l'individuazione del parametro normativo, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica di integrazione del parametro normativo, (cfr. Cass., n. 5960 del 1999; n. 14664 del 2001; n. 8254 del 2002; n. 13448 del 2003; n. 9808 del 2011; n. 17009 del 2017).

15. Quanto allo schema normativo di cui all'art. 2094 c.c., si è precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore dì lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato, (cfr. Cass., n. 4500 del 2007).

16. Tale assoggettamento non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze; sicché ove esso non sia agevolmente apprezzabile, come nel caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l'assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale), che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (cfr. Cass., S.U., n. 379 del 1999; n. 9623 del 2002; n. 13935 del 2006; n. 4500 del 2007; n. 9252 del 2010).

17. Tali elementi, lungi dall'assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale, (Cass., n. 9108 del 2012; Cass. S.U., n. 584 del 2008; Cass. n. 722 del 2007; Cass., n. 19894 del 2005; Cass., n. 13819 del 2003; Cass., S.U., n. 379 del 1999).

18. In relazione alla qualificazione come autonome o subordinate delle prestazioni rese da un professionista in uno studio professionale, questa Corte (in una fattispecie relativa ad un consulente fiscale in uno studio legale tributarista) ha precisato che la sussistenza o meno della subordinazione dovesse essere verificata in relazione alla intensità della etero - organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l'organizzazione fosse limitata al coordinamento dell'attività del professionista con quella dello studio, oppure eccedesse le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui. (Cass. 3594 del 2011).

19. Nel caso di specie, la Corte d'appello ha correttamente individuato gli indici normativi del lavoro subordinato ed autonomo e gli elementi indiziari, dotati di efficacia probatoria sussidiaria ai fini della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, ed ha ritenuto integrata la fattispecie di cui all'art. 2094 c.c.; ha, in particolare, valorizzato in un'ottica complessiva i seguenti elementi: il D.S. lavorava all'interno dello studio dell'avv. M., aveva rapporti con clienti non suoi ma dell'avv. M., svolgeva un'attività che non poteva esercitare in proprio perché privo del titolo di avvocato e di cui l'avv. M. assumeva necessariamente la paternità; riceveva dal titolare dello studio costantemente direttive, in particolare nelle riunioni serali quotidiane in cui venivano esaminate tutte le pratiche trattate e dettate indicazioni sull'attività da svolgere il giorno seguente. La Corte di merito ha inoltre sottolineato il carattere assolutamente prevalente dell'attività espletata dal D.S. nello studio legale (rispetto a quella di arbitro), la sostanziale osservanza di un orario lavorativo imposto dalla stessa organizzazione dello studio, la natura delle mansioni svolte, di supporto a quelle dell'avvocato e nell'interesse dei clienti di quest'ultimo.

16. In tal modo la sentenza impugnata si è conformata ai principi di diritto sopra enunciati e si sottrae alle censure di violazione dell'art. 2094 c.c.. Neppure può darsi rilievo alla deduzione, oggetto del terzo motivo di ricorso, sulla partecipazione al rischio di impresa del D.S. in quanto destinatario di una retribuzione parametrata al 12,50% dei ricavi netti dello studio, trattandosi di elemento fattuale non accertato nella sentenza d'appello (che sul punto, a pag. 9, ha unicamente statuito: "D'altra parte... che fino al 1990 il rapporto fosse di subordinazione è pacifico. Successivamente sarà cambiato il ventaglio delle funzioni, forse il sistema retributivo, ma niente è emerso che possa indurre a far ritenere che la natura del rapporto sia mutata") e neanche univocamente desumibile dalle allegazioni del D.S., come riportate nel ricorso in esame (pag. 23), di avere percepito dopo il 1990 "un compenso variabile di circa 2/3 milioni al mese".

17. Non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità le ulteriori censure che, se pure formalmente veicolate attraverso la denuncia di violazione di legge, sollecitano nella sostanza una nuova valutazione del materiale probatorio e degli argomenti difensivi, non consentita in questa sede di legittimità.

18. Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto.

19. La regolazione delle spese di lite segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

20. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, da liquidare in favore dell'avv. T.G. antistatario.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.