Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 giugno 2019, n. 16051

Mobbing - Atti e comportamenti vessatori - Mortificazione morale - Accertamento - Risarcimento danni

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Ancona, riformando integralmente la sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta da S.A. nei confronti della s.r.l. A.T. Servizi Assicurativi e Turistici, diretta ad ottenere il risarcimento dei danni da mobbing.

2. Il Tribunale, previa separazione dei processi riguardanti l'accertamento del mobbing e l'impugnativa del licenziamento, aveva accolto la prima domanda e riconosciuto il risarcimento del danno biologico. La Corte territoriale, accogliendo le censure mosse dalla società, riteneva invece che dall'analisi delle testimonianze e dalla verifica dei documenti non fosse possibile riscontrare alcun atteggiamento persecutorio posto in essere dalla società datrice di lavoro nei confronti della dipendente. Neppure sussistevano quegli atti e comportamenti vessatori, protratti nel tempo, idonei a determinare nella lavoratrice una mortificazione morale o una emarginazione con effetti lesivi del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

3. Analizzando partitamente gli episodi prospettati dalla ricorrente, ritenuti dalla stessa sintomatici del mobbing, era dato rilevarne l'insussistenza o l'irrilevanza:

- non era stato dimostrato in giudizio il lamentato demansionamento, atteso che la lavoratrice, inquadrata nel II livello contrattuale, benché avesse rivestito il ruolo di coordinatrice, lo aveva esercitato in modo del tutto marginale, presso una sede di lavoro molto piccola, con due o al massimo tre unità lavorative; inoltre, allorquando venne assegnata al riordino dell'archivio, continuò a svolgere le ordinarie attività di agenzia, come in precedenza, comprese quelle relative al presunto coordinamento;

- la richiesta di differimento dell'orario di lavoro avanzata dalla ricorrente era stata accolta, seppure con delle puntualizzazioni, mentre non potevano assumere alcun rilievo le modalità con cui venne fornita la risposta datoriale, non potendosi esigere al riguardo forme standardizzate a fronte delle specificità del singolo caso;

- l'episodio consistente nella dichiarata volontà di licenziare la ricorrente che parte datoriale avrebbe riferito ad un'altra dipendente non era provato, oltre che poco plausibile; la circostanza riferita risalirebbe poi a tre anni prima rispetto al licenziamento, intervenuto nel 2010;

- l'assegnazione al riordino dell'archivio, ritenuto dequalificante dalla S., aveva riguardato, secondo le deposizioni testimoniali, anche i documenti informatici, di frequente utilizzo; a tale attività di riordino era comunque stata associata l'attività ordinaria di addetta all'agenzia di viaggi;

- l'utilizzo del sistema operativo e della posta era sempre stato di dominio esclusivo della società datrice di lavoro, mentre era stata la stessa ricorrente a rendersi inadempiente apponendo al proprio account una limitazione che impediva l'accesso agli altri organi dell'ufficio;

- la privazione della disponibilità delle chiavi di accesso all'ufficio, che in precedenza venivano alternativamente detenute dalla ricorrente e da un altro dipendente, era spiegabile con sopravvenute esigenze organizzative indotte dalla lunga assenza della ricorrente per malattia;

- il licenziamento intimato, ritenuto immotivato dalla lavoratrice, in realtà era giustificato da ragioni oggettive, ossia dalla riorganizzazione dell'attività produttiva conseguente ad un calo del fatturato, per cui non poteva costituire un indice di mobbing.

4. La Corte territoriale osservava inoltre che il giudice di primo grado, senza alcuna ragionevole motivazione, non aveva condiviso le conclusioni rassegnate dai primi due C.t.u. medico-legali nominati, i quali, esperti nella specifica materia riguardante i possibili effetti psicofisici derivanti dall'ambiente di lavoro ostile, con ampia e puntuale spiegazione, avevano categoricamente escluso che le alterazioni psichiche riscontrate a carico della S. fossero riconducibili a mobbing, anziché ad eventi personali. A fronte di tali concordi conclusioni, peraltro ulteriormente chiarite da uno dei due C.t.u. in sede di riconvocazione, non poteva condividersi la scelta del Tribunale di nominare un terzo C.t.u., con il compito più limitato di valutare soltanto l'entità delle lesioni alla persona.

5. Per la cassazione di tale sentenza la S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito la società con controricorso.

6. In sede di memoria ex art. 378 cod. proc. civ., parte resistente ha evidenziato che questa Corte ha recentemente rigettato il ricorso della ricorrente avverso la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento.

 

Ragioni della decisione

 

1. I quattro motivi di ricorso denunciano violazione dell'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. in ordine ad alcuni dei passaggi logici dell'accertamento della insussistenza del mobbing. Con il primo si denuncia omesso esame in ordine al fatto che la ricorrente era stata adibita a mansioni riconducibili a qualifiche inferiori rispetto al formale inquadramento nella stessa. Ci si duole dell'omessa considerazione dell'organigramma allegato in atti, concernente la distribuzione dei ruoli all'interno dell'agenzia e dal quale sarebbe stato possibile rilevare - ad avviso della ricorrente - l'assunzione del ruolo di "coordinatore" nel periodo anteriore al demansionamento. Ci si duole anche della insufficiente valutazione della prova testimoniale circa l'autonomia con la quale la ricorrente svolgeva il proprio ruolo all'interno dell'agenzia di viaggi.

2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame del fatto che la datrice di lavoro aveva privato immotivatamente la ricorrente delle chiavi dell'ufficio. La sentenza aveva omesso di prendere in considerazione altre circostanze emerse nel giudizio di primo grado. La ricorrente riporta stralci della sentenza di primo grado contenenti - a suo avviso - una corretta ricostruzione di tale episodio.

3. Il terzo motivo denuncia omesso esame in punto di mancata valutazione del licenziamento e della sua correlazione con le condotte ostative poste in essere dalla datrice di lavoro. Anche in questo caso la ricorrente richiama la motivazione del giudice di primo grado che aveva valorizzato il licenziamento come elemento sintomatico del mobbing.

4. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in punto di mancata valutazione della relazione medico-legale del terzo C.t.u. nominato in primo grado. La ricorrente riporta stralci di tale consulenza di cui lamenta l'omesso esame.

5. Il ricorso è infondato.

6. Quanto al primo motivo, giova ribadire che l'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. n. 8053 del 2014).

6.1. Orbene, non è stato chiarito innanzitutto quali sarebbero i fatti decisivi omessi, tenuto conto che la Corte di appello ha distintamente e compiutamente esaminato ognuna delle allegazioni di fatto di parte ricorrente, fornendone una ragionevole lettura interpretativa alla luce delle risultanze istruttorie.

6.2. Nel contestare tale soluzione, parte ricorrente denuncia un'errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l'inammissibile intento di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice del merito.

6.3. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).

6.4. Inoltre, anche nella vigenza del nuovo testo dell'art. 360, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. Cass. S.U. sent. 8053/14).

6.5. La sentenza ha dato conto, puntualmente, delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell'apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori.

7. Specificamente, quanto al primo motivo, è sufficiente osservare che la sentenza impugnata ha escluso il lamentato demansionamento, argomentando alla luce delle risultanze istruttorie che il ruolo di coordinatrice era stato esercitato dalla S. in modo del tutto marginale e che comunque anche dopo l'assegnazione al riordino dell'archivio la ricorrente non era stata privata del contenuto essenziale delle mansioni esercitate in precedenza. La censura di omesso esame di un fatto decisivo si risolve, sostanzialmente, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito della causa.

8. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto incentrato, oltre che su una diversa interpretazione della prova testimoniale (censura inammissibile, per quanto già detto in precedenza), sul richiamo della motivazione svolta dal giudice di primo grado, secondo cui la privazione delle chiavi di accesso all'ufficio era dimostrazione di una diminuita fiducia datoriale nei confronti della ricorrente.

8.1. Una censura che si risolva nella richiamo della sentenza di primo grado è da ritenere priva di specificità al decisum e, come tale inammissibile, in quanto non rientrante nel paradigma normativo di cui all'art. 366, comma primo, n. 4 cod. proc. civ.. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l'esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l'esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzie diverse da quelle impugnate (Cass. n. 17125 del 2007, n. 4036 del 2011).

9. Il terzo motivo è infondato. Questa Corte, con ordinanza n. 1499 del 2019, ha rigettato il ricorso della S. avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona n. 186 del 2016 che, in totale riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto infondata l'impugnativa del licenziamento intimato da A.T. s.r.l. in data 25 gennaio 2010 per giustificato motivo oggettivo. Pertanto, essendo stata definitivamente accertata la legittimità del recesso datoriale, è venuto meno il principale dato storico valorizzato dalla ricorrente (e dal primo giudice) quale elemento qualificante del mobbing.

10. Il quarto motivo è inammissibile. La Corte di appello ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di non condividere la terza consulenza tecnica d'ufficio, disposta in primo grado sul presupposto che fosse già stato accertato in giudizio il nesso causale tra il comportamento datoriale e il danno all'integrità psicofisica. I giudici di appello hanno invece motivatamente ritenuto di condividere il giudizio espresso concordemente dai primi due C.t.u. nominati in primo grado, secondo i quali le alterazioni psichiche riscontrate non erano riconducibili a fattori lavorativi, ma ad eventi personali. Il ricorso non si confronta con tale ratio decidendi e neppure invero muove specifiche critiche a tali consulenze o alla sentenza che le ha condivise.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell'art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

12. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall'art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell'impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell'art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma1-bis, dello stesso articolo 13.