Illegittimità del licenziamento e risarcimento, quando è obbligatoria la messa in mora del lavoratore

Non sussiste alcun onere a carico del lavoratore di messa a disposizione delle proprie energie lavorative in favore dell’ex datore di lavoro, nell'ipotesi in cui vi sia una sentenza che dichiari l’illegittimità del licenziamento (art. 18, L. n. 300/1970), in considerazione della natura ricognitiva della dichiarazione di nullità. Piuttosto, spetta al datore di lavoro, per l’effettivo ripristino del rapporto e fermo restando il diritto al risarcimento del danno liquidato, l'onere di invitare il lavoratore alla ripresa del servizio, con una comunicazione specifica, seppur in forma non solenne (Corte di Cassazione, sentenza 06 giugno 2019, n. 15379).

Un lavoratore dipendente di una Società per cui è stato dichiarato il fallimento, aveva proposto opposizione (art. 98, Legge fallimentare) avverso lo stato passivo dal quale era stato escluso il credito insinuato in via privilegiata, per mancato pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di licenziamento a quella di dichiarazione di fallimento, sulla base della sentenza di altro Tribunale, passata in giudicato, di accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Società poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria (art. 2751-bis, n. 1, c.c.).
Il Tribunale adito aveva rigettato l'opposizione in quanto aveva ritenuto non fosse stata data prova da parte del lavoratore, su cui ricadeva l’onere, dell'offerta delle proprie energie lavorative alla Società datrice per esserne riassunto.
Ricorre così in Cassazione il lavoratore, lamentando violazione o falsa applicazione della legge (art. 18, L. n. 300/1970), per l’inesistenza di un onere probatorio del lavoratore di messa a disposizione delle proprie energie lavorative e di violazione del giudicato di reintegrazione nel posto di lavoro.
In via preliminare viene affermata l'ammissibilità del motivo e l’irrilevanza della mancata trascrizione del giudicato dell’altro Tribunale sulla illegittimità del licenziamento. Invero, la suddetta trascrizione sarebbe necessaria, ai fini di ammissibilità del motivo, sia pure costituendo il giudicato la regola del caso concreto e conseguentemente una questione di diritto da accertare direttamente, allorquando essa investa la sua interpretazione, restando diversamente preclusa al giudice di legittimità ogni tipo di attività nomofilattica (Corte di Cassazione, sentenza 16 luglio 2014, n. 16227). Tuttavia, nel caso di specie la sentenza in giudicato dell’altro Tribunale rileva come circostanza di fatto, incontestata tra le parti ed esterna alla questione devoluta, che rileva come elemento allegato in funzione probatoria ai fini di ammissione del lavoratore al concorso fallimentare.
Tanto premesso, per la Suprema Corte il motivo è fondato. Non sussiste alcuna necessità di una messa in mora da parte del lavoratore, non potendo essere assimilata l'ipotesi di licenziamento illegittimo (art. 18, L. n. 300/1970) a quella di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, con la sua conversione a tempo indeterminato (Corte di Cassazione, sentenza 13 aprile 2007, n. 8903), per la natura ricognitiva della dichiarazione di nullità. Quando invece il lavoratore impugni stragiudizialmente il licenziamento illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione manifestato con l'intimazione del licenziamento, egli già con tale agire compie l'offerta della sua prestazione lavorativa richiedendo il ripristino del rapporto. Di contro, spetta al datore di lavoro, per l’effettivo ripristino del rapporto e fermo restando il diritto al risarcimento del danno liquidato, l'onere di invitare il lavoratore alla ripresa del servizio, con una comunicazione, seppur in forma non solenne, ma in modo concreto e specifico (Corte di Cassazione, sentenza 27 novembre 2013, n. 26519), con decorrenza da tale momento del termine di trenta giorni per il lavoratore medesimo di riprendere il lavoro.
Né rileva poi, ai fini in esame, il fatto che il lavoratore avesse prestato la propria opera in favore di altri soggetti, poiché la circostanza di una nuova occupazione del lavoratore nelle more, non era significativa di una sua carenza d'interesse al ripristino dell'originario vincolo, rilevando eventualmente sotto il profilo dell'aliunde perceptum (Corte di Cassazione, sentenza 17 febbraio 2010, n. 3682).