Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 maggio 2019, n. 12786

Licenziamento per giusta causa - Gravità complessiva delle singole condotte addebitate - Espressioni volgari - Lesione del vincolo fiduciario

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato in data 9.7.2015 dalla datrice di lavoro I.I. s.r.l. a M.C. e lo ha annullato; ha condannato la società alla reintegrazione del C. nel posto di lavoro, al pagamento in favore dello stesso di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, pari a € 2.157,16, dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, ed al versamento dei contributi previdenziali per lo stesso periodo.

1.1. Il giudice del reclamo, premesso che la lettera di recesso datoriale non considerava congiuntamente le singole condotte addebitate, nel senso di ritenere le stesse, per la loro gravità complessiva, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, evidenziato che l'azienda aveva collegato la irrimediabile lesione del rapporto di fiducia solo alla risposta gratuita ed offensiva del C. verso il collega del centralino ed all'insulto nei confronti dell'azienda, ha ritenuto: a) che il primo dei fatti contestati - costituito dall'avere il C., guardia giurata, durante il turno di servizio presso la sede della Banca Nazionale del Lavoro, turno implicante lo svolgimento di specifici, delicati e continuativi compiti di sicurezza, contattato ripetutamente ed insistentemente la sede centrale, per motivi non urgenti (richiesta all'Amministrazione del Cud che aveva smarrito) - configurava, in base all'art. 101 del c.c.n.I. applicabile, una condotta astrattamente punibile (anche nella ipotesi più grave) solo con sanzione conservativa; b) che il secondo degli addebiti contestati - costituito dall'avere il C. usato espressioni volgari rivolgendosi al collega operatore telefonico e di avere, sempre nel corso di una delle telefonate effettuate per comunicare con la sede centrale, riferendosi alla datrice di lavoro, profferito l'espressione "che azienda di m...", non integrava, tenuto conto anche della indicazione di irrilevanza di tale addebito scaturente dalle ipotesi alle quali il contratto collettivo collegava la sanzione espulsiva, alcuna insubordinazione o offesa al datore di lavoro tale da minare l'elemento fiduciario, non sussistendo in capo al dipendente alcun dovere " di stima" nei confronti della propria azienda ed essendo, piuttosto, il lavoratore tenuto all'osservanza dei doveri di diligenza e fedeltà. Il giudice del reclamo, in particolare, osservato che secondo la giurisprudenza di legittimità la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alla prestazione ma si estende a qualsiasi comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale di talché, in tale ottica, la critica rivolta ai superiori può essere suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale dal momento che l'efficienza di questa riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i dirigenti, ha ritenuto che, nel caso di specie, l'espressione utilizzata non appariva suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale in quanto del tutto priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli tali da determinare il venir meno, ragionevolmente, del rapporto fiduciario o di essere lesiva del decoro dell'impresa pur avendo tale espressione usata travalicato i limiti della correttezza; neppure le parole usate potevano considerarsi suscettibili di arrecare un danno economico in termini di lesione all'immagine e alla reputazione commerciale. La Corte di merito ha, quindi, fatto conseguire alla illegittimità del licenziamento la tutela di cui al novellato articolo 18, comma 4, legge 20/5/1970 n. 300.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso ICTS Italia s.r.l. sulla base di cinque motivi. La parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

2.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione del c.c.n.I. della Vigilanza con riferimento alla parte inerente ai doveri del personale. Assume, in sintesi, che la previsione collettiva che impone al lavoratore di usare modi cortesi e corretti verso il superiore ed il pubblico non doveva essere posta in esclusiva correlazione con la graduazione delle sanzioni disciplinari conservative ma configurava violazione dei doveri generali facenti capo al dipendente i quali, in ragione della loro gravità, ben potevano essere sanzionati anche con il licenziamento; evidenzia che, nel caso di specie, tale valutazione di gravità doveva tenere conto della complessiva condotta del lavoratore tenuta nel giorno al quale era riferita la commissione degli addebiti. Assume, sotto altro profilo, premesso il carattere necessariamente esemplificativo delle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo, non essere vero che le condotte punite con il licenziamento dal contratto collettivo risultavano ben più gravi di quelle in concreto tenute dal dipendente; in particolare la espressione <<che azienda di m...>> si connotava come di particolare gravità in termini di disprezzo e di cattiva pubblicità per l'azienda.

2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod. civ. e della <<sapiente interpretazione giurisprudenziale di tale disposto>>. Censura la sentenza impugnata per avere interpretato la lettera di licenziamento nel senso secondo il quale la società non aveva inteso fondare il proprio recesso sulla complessiva condotta del C. nel giorno indicato ma aveva ritenuto leso il rapporto fiduciario solo in relazione alla risposta volgare ed offensiva nei confronti dell'operatore telefonico e all'insulto di aperto disprezzo nei confronti della società. Sostiene che, al contrario, secondo quanto emergente dalla lettera di contestazione e da quella di licenziamento, che alla prima integralmente rinviava, le condotte ascritte dovevano ritenersi fra loro collegate in un crescendo di progressiva gravità. Contesta, inoltre, l'affermazione secondo la quale neppure poteva ritenersi che il C. avesse posto in essere un comportamento di critica con modalità esorbitanti l'obbligo di correttezza formale, sia nei toni che nei contenuti.

3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla circostanza che l'espressione addebitata al C. era stata profferita in presenza di più persone, come del resto riconosciuto dal C. medesimo nel corso del libero interrogatorio.

4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in via subordinata, violazione e falsa applicazione del disposto dell'art. 18, legge n. 300/1970 cit., censurando la sentenza impugnata per avere fatto conseguire all'illegittimità (per difetto di proporzionalità) del licenziamento la tutela reintegratoria e non la sola tutela indennitaria ed, in via di ulteriore subordine, per l'ipotesi di ritenuta conferma della tutela reintegratoria, per non avere contenuto nei limiti di legge la misura della indennità risarcitoria.

5. Con il quinto motivo, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., in via subordinata al mancato accoglimento dei primi tre motivi, censura, in sintesi, la decisione per avere omesso di considerare un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall'ammontare della retribuzione globale, assunta a parametro della indennità risarcitoria, che sostiene essere di importo inferiore a quello accertato dal giudice d'appello.

6. Il primo motivo di ricorso è infondato. Il giudice del reclamo, infatti, a differenza di quanto prospetta la odierna ricorrente, non ha fondato l'affermazione della sanzionabilità con misura conservativa della condotta - costituita dall'avere profferito espressioni volgari verso il collega addetto al centralino - sull'assunto che la violazione dei doveri indicati dall'art. 101 c.c.n.I., e cioè i doveri inerenti alla scrupolosa osservanza delle mansioni ed all'uso di modi corretti e cortesi verso i superiori, i colleghi e il pubblico, escludesse in radice la possibilità del licenziamento; la ritenuta applicabilità alla condotta in oggetto di una sanzione conservativa è frutto, infatti, di una complessiva valutazione delle previsioni del contratto collettivo in ordine alle condotte di rilievo disciplinare ed alle relative sanzioni, previsioni utilizzate dal giudice del reclamo quale parametro al quale ancorare la valutazione dell'applicabilità, in concreto, di una sanzione conservativa. Tale operazione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte che riconosce nelle previsioni del codice disciplinare uno dei parametri atti a riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cod. civ.. Il giudice di legittimità, infatti, anche quando si è espresso nel senso della non vincolatività delle tipizzazioni contenute nella contrattazione collettiva, richiedendo, comunque, l'accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (Cass. 7/11/2018 n. 28492; Cass. 24/10/2018 n. 27004), ha, comunque, puntualizzato che nella verifica della sussistenza della giusta causa il giudice del merito non può prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nella individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni (Cass. n. 28492/2018 cit.).

7. Il secondo motivo di ricorso è anch'esso da respingere. Si premette che il motivo, veicolato come violazione dell'art. 2119 cod. civ., si sviluppa secondo due direttrici: a) mancata valutazione unitaria delle condotte, in contrasto con il tenore della lettera di contestazione e della lettera di licenziamento; b) riconducibilità alla nozione elastica di <<giusta causa>> delle condotte ascritte ed in particolare di quella attinente alle espressioni offensive profferite nei confronti dell'azienda.

7.1. Il primo profilo è inammissibile in quanto la deduzione di errata interpretazione del contenuto della lettera di contestazione e di quella di licenziamento, non è articolata con modalità coerenti con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un'attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l'astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato; la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell'attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l'indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto I' interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178), dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell' interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell'annullamento di quest'ultima (Cass. 06/06/2013 n. 14318; Cass. 22/11/2010 n. 23635).

7.2. In relazione al secondo profilo occorre premettere che per consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento <<che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto>>, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. 26/04/2012 n. 6498; Cass. 02/03/2011 n. 5095).

7.3. Con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità il giudice del reclamo ha, sulla base delle concrete circostanze, ridimensionato la complessiva gravità della condotta puntualizzando che l'espressione usata, in quanto <<priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli>>, non era tale da arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, minare il decoro della società o creare pregiudizio economico. Ha argomentato che essa era, piuttosto, rivelatrice del convincimento del dipendente di una disfunzione amministrativa e frutto di un'abitudine lessicale <<senza dubbio volgare e inappropriata>> ma priva di intenti realmente offensivi ed aggressivi nei confronti del datore di lavoro. Da quanto ora osservato discende che la esclusione della giusta causa di licenziamento non è frutto dell'errata ricognizione da parte del giudice del merito dei principi generali e dei parametri normativi destinati ad integrare la nozione legale di <<giusta causa>> ma scaturisce dalla considerazione di tali principi alla luce della reale entità dell'addebito ascritto, nei suoi profili oggettivi e soggettivi, ritenuta non giustificare la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario ai sensi dell'art. 2119 cod. civ..

8. Il terzo motivo di ricorso è da respingere per difetto di decisività del fatto storico del quale si assume l'omesso esame, costituito dall'essere le condotte addebitate avvenute in presenza di altre persone, secondo quanto desumibile dalle dichiarazioni rese dal C. nel corso dell'interrogatorio formale. Le ragioni che hanno indotto il giudice del reclamo ad escludere la giusta causa di licenziamento riposano, infatti, sulla valutazione complessiva di una molteplicità di elementi ed in particolare sull'assenza di intenti realmente offensivi ed aggressivi nei confronti del datore di lavoro; in conseguenza, la circostanza rappresentata dalla presenza di terzi - esclusa, invece, dal giudice di seconde cure - non appare già prima facie elemento la cui considerazione avrebbe condotto, con carattere di certezza e non di mera probabilità, come prescritto (Cass. 26/06/2018 n. 16812; Cass. 24/10/2013 n. 24092), ad una diversa decisione in punto di verifica di legittimità del licenziamento.

9. Il quarto motivo di ricorso è fondato, con effetto di assorbimento del quinto motivo. Ricordato che le condotte ascritte sono state accertate nella loro materialità e che la esclusione della giusta causa di licenziamento è frutto della valutazione di non proporzionalità della sanzione espulsiva, trova applicazione l'art. 18 Legge n. 300/1970 cit., come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28/6/2012 n. 92, che, nell'introdurre per la ipotesi di illegittimità del licenziamento una graduazione delle sanzioni, riconosce la tutela reintegratoria di cui al comma 4, art. 18 cit. per le sole ipotesi di maggiore evidenza, prevedendo, invece, al comma 5, la tutela risarcitoria per le "altre ipotesi", quale il difetto di proporzionalità non codificato dalla contrattazione collettiva (Cass. 16/07/2018 n. 18823; Cass. 06/11/2014 n. 23669).

10. In conclusione, in base alle considerazioni che precedono, il quarto motivo di ricorso deve essere accolto, respinti il primo, il secondo ed il terzo motivo ed assorbito il quinto; segue la cassazione della decisione con rinvio ad altro giudice di secondo grado che si indica nella Corte di appello di Roma in diversa composizione, alla quale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il quarto motivo, rigetta i primi tre motivi, assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.