Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 marzo 2019, n. 7123

Tributi - Accertamento - Dichiarazioni reddituali - Reddito imponibile - Rettifica - Studi di settore

 

Fatti di causa

 

D.D.C. proponeva appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale che aveva rigettato il ricorso presentato dalla contribuente avverso l'avviso di accertamento con il quale la Agenzia delle Entrate aveva provveduto a rettificare il reddito imponibile ai fini IRPEF, IRAP ed I.V.A., in relazione all'anno d'imposta 2004, sulla base degli studi di settore di cui all'art. 62-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427.

La contribuente insisteva nella eccezione di difetto di motivazione dell'atto impugnato, che non teneva conto delle caratteristiche della attività espletata, ed in particolare della accertata localizzazione dell'impresa in una zona in cui era presente un sito di stoccaggio di rifiuti, motivo di per sé idoneo a giustificare la rilevata incongruità tra ricavi dichiarati e ricavi accertati.

L'Ufficio controdeduceva che l'accertamento si fondava su dati dichiarati dalla stessa contribuente, la quale in sede di contraddittorio non aveva fornito alcuna documentazione, né giustificazione idonea a confutare quanto accertato in sede di verifica.

I giudici di appello, confermando la sentenza di primo grado, rilevavano che la contribuente, sia in sede di contraddittorio che in primo grado, non aveva addotto valide motivazioni idonee a confutare l'operato dell'Amministrazione ed a giustificare il notevole scostamento tra i dati dichiarati e quelli accertati. Richiamando il verbale redatto dall'Ufficio in sede di contraddittorio, allegato all'avviso di accertamento, ponevano in evidenza la considerevole incongruenza tra i ricavi conseguiti, i costi sostenuti ed il reddito dichiarato per l'attività di ristorazione esercitata, sottolineando che da tali dati emergeva in modo evidente l'antieconomicità della gestione in relazione al reddito minimo dichiarato, pari ad euro 27.418,00, costituente unica fonte di guadagno della contribuente e del suo nucleo familiare.

Ritenendo, dunque, approfonditi e dettagliati i rilievi contenuti nell'atto impositivo, consideravano assorbita ogni altra questione e legittimo l'accertamento.

Avverso la suddetta decisione propone ricorso per cassazione D.D.C., affidandosi a tre motivi.

L'Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione al solo fine dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione.

La contribuente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso, deducendo "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7 della I. n. 212/2000 e dell'art. 3 I. 7/8/1990 n. 241 e mancato rilievo della nullità dell'avviso di accertamento", la ricorrente lamenta che la motivazione dell'avviso di accertamento è solo apparente, in quanto esclusivamente volta a negare validità alle argomentazioni svolte in sede di "contraddittorio", e che l'Ufficio impositore si è limitato a rimarcare il mero scostamento valoriale dei dati dichiarati rispetto a quelli emergenti dall'applicazione dello studio di settore.

Sollecita, pertanto, questa Corte a cassare la sentenza impugnata che ha omesso di rilevare, anche d'ufficio, la nullità dell'avviso di accertamento per carenza di adeguata motivazione, sottolineando che, diversamente da quanto indicato nella sentenza impugnata, all'atto impositivo non è stato allegato alcun atto riguardante la fase del "contraddittorio".

2. Il motivo è infondato.

2.1. Va ribadito che in tema di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore, la relativa procedura costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è « ex lege » determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli « standards » in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, il quale, in tale sede, ha la facoltà di contestare l'applicazione dei parametri provando, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la sussistenza di circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l'Ufficio - ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte - ad integrare la motivazione dell'atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento (cfr. Cass. 20 settembre 2017, n. 21754; Cass. 7 giugno 2017, n. 14091). L'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato dalle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa. In tal caso,  però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto ogni qual volta il contraddottorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l'Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli standards (Cass. Sez. U., 18/12/2009, n. 26635) e non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (Cass. n. 17646 del 2014; n. 10047 del 2016).

2.2. La motivazione dell'avviso di accertamento, pertanto, non può esaurirsi nel mero rilievo dello scostamento, essendo preciso onere dell'Ente impositore motivare adeguatamente sulla concreta applicabilità dello studio di settore prescelto, a partire dal cluster di riferimento, e sulle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente (Cass. 12 aprile 2017, n. 9484).

2.3. Infatti, quel che assume centrale importanza nell'accertamento mediante l'applicazione dei parametri o studi di settore è proprio il contraddittorio con il contribuente dal quale possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica dell'impresa la «presunzione» indotta dal rilevato scostamento del reddito dichiarato dai parametri e, di conseguenza, la giustificabilità di un onere della prova contraria a carico del contribuente (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26635).

2.4. Tali principi hanno trovato piena conferma nella sentenza del 21 novembre 2018, in causa C-648/16, con la quale la Corte di Giustizia UE, pronunciandosi sulla interpretazione dell'art. 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, ha precisato che « l'art. 273 della direttiva IVA non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale.... che, al fine di garantire l'esatta percezione dell'IVA e di prevenire l'evasione fiscale, determini l'importo dell'IVA dovuta da un soggetto passivo sulla base del volume d'affari complessivo, accertato induttivamente sulla scorta di studi settoriali approvati con decreto ministeriale» (punto 36); ha, inoltre, rilevato che «...il diritto di difesa del soggetto passivo deve essere garantito durante tutto il corso del procedimento di rettifica fiscale, il che implica, in particolare, che ogniqualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto lesivo per il medesimo, questi dev'essere posto in condizione di manifestare utilmente il proprio punto di vista in merito agli elementi sui quali l'Amministrazione intenda fondare la propria decisione (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Helimann Worldwide Logistics, C 129/13 e C 130/13, punto 30)» (punto 43); « il soggetto passivo deve quindi disporre, da un lato, della possibilità di contestare, ai fini della valutazione della propria specifica situazione, tanto l'esattezza quanto la pertinenza dello studio di settore in questione. Dall'altro, il soggetto passivo dev'essere in grado di far valere le circostanze per le quali il volume d'affari dichiarato, benchè inferiore a quello determinato in base al metodo induttivo, corrisponda alla realtà della propria attività nel periodo interessato» (punto 44).

La Corte di Giustizia, rispondendo sulla questione sollevata, ha, pertanto, dichiarato che «la direttiva IVA, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una ..normativa nazionale..... che consenta all'Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi divergenze tra redditi dichiarati e redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore, al fine di accertare il volume d'affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell'IVA, a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché di diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell'imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva IVA...» (punto 46).

2.5. Nel caso in esame, emerge dalla sentenza, nella parte relativa allo svolgimento del processo, che l'Ufficio già nel giudizio di primo grado aveva posto in evidenza che in sede di contraddittorio la contribuente non aveva fornito alcuna documentazione, né addotto alcuna argomentazione idonea a confutare quanto accertato ed a giustificare la gestione antieconomica posta in essere nell'anno d'imposta in contestazione.

I giudici di appello hanno ribadito nella motivazione della decisione impugnata che la contribuente, né in sede di contraddittorio, né nel giudizio di primo grado aveva prodotto «valide e sufficienti motivazioni idonee a confutare l'operato dell'Ufficio accertatore, a giustifica del notevole scostamento tra i dati dichiarati e quelli accertati...», in tal modo riconoscendo che l'Ufficio ha provveduto alla preventiva instaurazione del contraddittorio e che la contribuente in quella sede non ha addotto giustificazioni ostative all'applicazione dello studio di settore.

2.6. La ricorrente, d'altro canto, non ha riportato in ricorso o, comunque allegato, in omaggio al principio di autosufficienza, eventuali giustificazioni evidenziate in sede di contraddittorio, e non valutate dall'Ufficio, volte a dimostrare la sussistenza di circostanze idonee in astratto a contrastare la presunzione di maggiore reddito, sicchè deve ritenersi che l'Agenzia fiscale abbia esattamente applicato le modalità procedurali indicate da questa Corte e ribadite dalla Corte di Giustizia UE e che la Commissione regionale - la quale, peraltro, si limita a rilevare la assenza di giustificazioni, da parte della contribuente, nel corso del procedimento amministrativo, ma nulla riferisce in ordine al contenuto dell'apparato motivazionale dell'atto impositivo - non ha errato nell'applicazione delle norme invocate dalla ricorrente, essendosi uniformata ai principi sopra richiamati.

3. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato: "Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 39 del d.P.R. n. 600/1973 e dell'art. 2729 cod. civ. e conseguente mancato rilievo della nullità dell'impugnato avviso di accertamento", la ricorrente ribadisce che, in assenza di ispezioni delle scritture contabili o di acquisizione di documentazione ai sensi degli artt. 32 e 33 del d.P.R. n. 600/1973, la pretesa impositiva è stata fatta derivare esclusivamente dalla ritenuta fondatezza delle «presunzioni...gravi, precise e concordanti» e che tali non possono considerarsi - contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione regionale - le sole argomentazioni contenute nell'avviso di accertamento che si risolvono nella mera elencazione del valore degli scostamenti tra i dati forniti dal contribuente e quelli derivanti dalle medie statistiche previste per la categoria di appartenenza.

Aggiunge che l'onere del contribuente di dimostrare l'infondatezza delle contestazioni mosse dall'Ufficio sorge solo dopo che l'Ufficio medesimo abbia dimostrato l'utilizzabilità dei parametri dallo stesso invocati e che nel caso in esame, nell'atto di accertamento, l'Ufficio nega validità ai dati offerti dalla contribuene sulla mera base della loro distanza da quelli derivanti dall'applicazione dello studio di settore, impedendo in tal modo al contribuente di poter spiegare una adeguata difesa, posto che ritenere inveritieri i dati esposti dal contribuente solo perché differenti da quelli medi dello studio di settore non può, di per sé, costituire dimostrazione della validità di questi ultimi.

4. La censura è infondata.

4.1. Questa Corte ha affermato che nell'accertamento delle imposte sui redditi «l'art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427), consente, pure in presenza di contabilità formalmente regolare, la rettifica induttiva del reddito d'impresa qualora emergano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell'attività svolta o agli studi di settore, e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973» (Cass. n. 8643 del 2007); si è inoltre chiarito che «in tema di accertamento induttivo dei redditi, l'Amministrazione finanziaria può, ai sensi dell'art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, fondare il proprio accertamento sia sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili "dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell'attività svolta", sia sugli studi di settore, nel qual ultimo caso l'Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente» (Cass. 16430 del 27/7/2011).

4.2. Nella sentenza impugnata è stato evidenziato che «dalla disamina del verbale redatto dall'Ufficio impositore in sede di contraddittorio, allegato all'avviso di accertamento, si evidenzia palesemente la grave carenza delle tesi proposte dalla contribuente a sostegno delle eccepite incongruenze tra i dati dichiarati e quelli risultanti dall'applicazione dello studio di settore TG36U, inerente l'attività esercitata dalla contribuente, fondate, peraltro, su un bilancio incompleto, senza indicazione del risultato d'esercizio e con importi anomali e discordanti, riferiti ad una fantomatica, quanto inverosimile, diversificazione di ricavi e di acquisti, non riscontrabile dal libro inventari, oltre che ad un'erronea imputazione di euro 41.775,00 quali "altri proventi considerati ricavi", al rigo F16, esclusivamente riservato ai ricavi di cui alle lettere f) del comma 1 dell'art. 85 del T.U.I.R.. Oltre ai suddetti rilievi, già di per sé sufficienti a giustificare il ricorso all'accertamento induttivo per la determinazione presuntiva del reddito d'impresa, con l'applicazione degli studi di settore e del software "GE.RI.CO.", va, altresì, evidenziata la considerevole incongruenza tra i ricavi conseguiti, i costi sostenuti e il reddito dichiarato, per l'attività di ristorazione esercitata, non solo per l'anno 2004, ma anche per i due anni precedenti, che dimostrano l'antieconomicità della gestione, in relazione al minimo reddito dichiarato di euro 27.418,00, costituente l'unica fonte di guadagno della contribuente e del suo nucleo familiare, composto dal coniuge e dai due figli a carico, corroborata dalle ulteriori incongruenze, risultanti dal controllo ex art. 39 del d.P.R. n. 600/73: una percentuale di ricarico sulle vendite del 33%, di gran lunga inferiore a quella praticata nel settore che si attesta nel range 106%- 314%; un'altissima incidenza del costo del venduto sui ricavi conseguiti, considerata l'attività di prestazione di servizi (ristorazione), e non di commercio, svolta; un abnorme indice di rotazione del magazzino, in misura del 130,13%, rispetto a quello massimo previsto, in casi analoghi, del 75,12% e, non ultimo, l'elevato valore dei beni strumentali utilizzati, dichiarato in euro 443.894,00 ».

4.3. La motivazione sopra ritrascritta evidenzia che l'Amministrazione ha fondato l'accertamento su dati che sono stati desunti dalla contabilità aziendale - la quale, seppure formalmente tenuta, risultava inattendibile - e che dagli stessi emergevano gravi incongruenze tra ricavi, costi sostenuti e corrispettivi dichiarati e quelli ragionevolmente desumibili dall'applicazione degli studi di settore, idonee, di per sé, a legittimare la ricostruzione di un maggior imponibile.

4.4. La Commissione regionale, all'esito della disamina delle risultanze istruttorie acquisite, ha, dunque, ritenuto giustificata la determinazione induttiva del reddito operata dall'Amministrazione, considerando a tal fine gravi, precisi e concordanti i numerosi elementi presuntivi offerti dall'Ufficio, desumibili dal verbale redatto in sede di verifica, e del tutto inconsistenti le argomentazioni difensive addotte dalla contribuente a giustificazione delle numerose incongruenze riscontrate.

Non è, pertanto, ravvisabile il dedotto vizio di violazione di legge.

5. Con il terzo motivo, deduce "omesso esame circa un fatto decisivo della controversia ovvero assente motivazione in ordine alle conseguenze della ubicazione del luogo di esercizio dell'attività commerciale (art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.) - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ. in relazione all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.)". Lamenta che la Commissione regionale, affermando «attesi gli approfonditi e dettagliati, nonché pienamente condivisi, contenuti offerti, in parte motiva, a sostegno del proprio deciso, dai Giudici di prime cure, appare ultronea ogni altra considerazione espositiva, in assorbimento di ulteriori deduzioni, eccezioni e richieste», ha omesso l'esame di uno dei motivi di impugnazione dell'atto di accertamento, riproposto anche in appello.

Rilevando che tale omissione integra violazione del disposto dell'art. 112 cod. proc. civ., che impone al giudice di esaminare tutte le doglianze poste alla sua attenzione, ribadisce che la Commissione regionale non ha dato rilevanza alla località in cui veniva esercitata la attività commerciale (sita a pochi metri di distanza da una nota discarica della Campania), pur trattandosi di circostanza che avrebbe potuto quanto meno influire sulla "misura" dello scostamento accertato, che avrebbe potuto essere ridotto in ragione della evidente incidenza che la ubicazione spiegava sulla capacità reddituale di qualsiasi attività commerciale.

5.1. La censura è in parte infondata ed in parte inammissibile.

5.2. Come più volte ribadito da questa Corte, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo in tal caso ravvisarsi una implicita statuizione di rigetto quando la pretesa avanzata con il capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logicogiuridica della pronuncia (Cass. n. 20311 del 4/10/2011; Cass. n. 3756 del 15/2/2013).

5.3. Si è, altresì, precisato, che la differenza fra l'omessa pronuncia di cui all'art. 112 cod. proc. civ. e l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., si coglie nel senso che, nella prima, l'omesso esame concerne direttamente una domanda od un'eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso di motivo d'appello, uno dei fatti costitutivi della "domanda" di appello), mentre nella seconda ipotesi l'attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l'eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un'eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia (Cass. n. 25761 del 5/12/2014; n. 25714 del 4/12/2014; Cass. n. 5444 del 14/3/2006).

5.4. Nel caso di specie, non è ravvisabile vizio di omessa pronuncia, in quanto la sentenza impugnata, nell'escludere la fondatezza delle ragioni d'appello, ha seguito un percorso logico incompatibile con l'argomento riproposto dalla contribuente a fondamento del terzo motivo del ricorso per cassazione.

5.5. Neppure sussiste il dedotto vizio di motivazione.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, anche a Sezioni Unite, «la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni  complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione» (Cass. Sez. U, n. 13045 del 27/12/1997; n. 91 del 7/1/2014; n. 1539 del 22/1/2018).

5.6. Infatti, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla revisione del «ragionamento decisorio», ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).

5.7. Ebbene, nel caso di specie, la Commissione regionale ha spiegato, attraverso una motivazione del tutto esaustiva ed immune da vizi logici, le ragioni per cui ha ritenuto legittimo l'accertamento operato dall'Ufficio, indicando gli elementi su cui ha fondato il proprio convincimento e, pertanto, la decisione non è censurabile neanche sotto il profilo motivazionale.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, non avendo l'Agenzia delle Entrate svolto attività difensiva.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.