Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 gennaio 2019, n. 348

Tributi - IRPEF - Redditi fondiari - Locazione fabbricati - Contratto di locazione risolto per mutuo consenso - Effetti retroattivi del patto di risoluzione - Opponibilità all’Amministrazione finanziaria - Esclusione - Accertamento canoni di locazione non dichiarati - Legittimità

 

Fatti di causa

 

Il contribuente Z. F. propone ricorso, affidato a due motivi, nei confronti dell'Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, e del Ministero dell'Economia e Finanze per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna n. 115/07/2009, pronunciata in data 28.10.2009 e depositata in data 16.12.2009, con la quale è stato respinto l'appello del contribuente avverso la sentenza di primo grado emessa dalla CTP di Modena, la quale aveva, a sua volta, rigettato il ricorso dello Z. avverso l'avviso di accertamento per maggiore Irpef per l'anno 2000 in relazione a canoni di locazione non dichiarati.

Il ricorrente allegava, in particolare, di essere comproprietario al 50%, di un fabbricato ad uso laboratorio sito in Modena; di avere, assieme al comproprietario R. R., concesso in locazione in data 10.6.2000 l'immobile alla Webcom s.r.l., società di cui tanto lo Z. quanto il R. erano soci al 50%; di non aver mai percepito alcun canone locatizio, onde nella dichiarazione dei redditi era stato dichiarato unicamente il reddito catastale dell'immobile de quo; di avere, in data 27.10.2006 - ossia successivamente all'accertamento dell'Ufficio, notificato al contribuente il 29.9.2006 - comunicato all'A.d.E. la risoluzione del contratto di locazione con effetto retroattivo a far tempo dall'11.6.2000 (in relazione a tale dichiarazione veniva corrisposta l'imposta di registro, come documentato in atti). La validità ed efficacia della predetta dichiarazione di risoluzione del contratto veniva riconosciuta dall'A.d.E. in relazione ad altri tre avvisi di accertamento emessi nei confronti dei due comproprietari per le stesse ragioni (in relazione agli anni 2000 e 2003), che venivano annullati (i due emessi nei confronti del R. ed uno, relativo al 2003, nei confronti dello stesso Z.) in via di autotutela ovvero in sede di giudizio di primo grado, a seguito di "adesione" dell'A.d.E. alla domanda di annullamento dell'accertamento, con estinzione del giudizio: nei provvedimenti emessi in sede di autotutela, indirizzati al comproprietario R., l'annullamento dell'accertamento era esplicitamente ricollegato alla «riscontrata inesistenza del presupposto impositivo», posto che «il contratto non era più in essere per comunicata risoluzione anticipata all'11 giugno 2000». Diversa, invece, era stata la determinazione dell'Ufficio rispetto all'avviso di accertamento in esame.

La CTR, con la decisione qui impugnata, ha disatteso la prospettazione del contribuente, affermando che, in base alla normativa ratione temporis vigente (art. 23 t.u.i.r.), il locatore di immobili ad uso commerciale ha l'obbligo di esporre in dichiarazione il reddito derivante dai canoni di locazione, ancorché non effettivamente percepiti, essendo, per converso, esclusa una diversa determinazione del reddito da fabbricati su base catastale. In tale prospettiva, il ricorrente lamenta, in sostanza, che la CTR ha omesso di considerare l'intervenuta risoluzione del contratto di locazione, evento che non avrebbe consentito di far rientrare l'ammontare del canone nel calcolo della base imponibile.

L'A.d.E. resiste con controricorso. Il ricorrente ha depositato atto in data 9.2.2011, notificato in data 31.1.2011, con cui dichiara di rinunciare al ricorso nei confronti del M.E.F.

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente, va rilevato che, con atto in data 9.2.2011, notificato in data 31.1.2011, Z. F. ha rinunciato al ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Deve essere dichiarata, pertanto, l'estinzione del giudizio per rinuncia in parte qua.

2. Con il primo motivo si denunzia il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. e di violazione di legge, in riferimento all'art. 3 Cost., per non avere la CTR adeguatamente affrontato la questione relativa alla avvenuta risoluzione anticipata del contratto di locazione a far tempo dall'11.6.2000: questione costituente punto decisivo per il giudizio, dipendendo da essa la sussistenza o meno del presupposto impositivo, nonché debitamente dedotta quale motivo di appello (oltre che riconosciuta dalla stessa Agenzia controricorrente con riferimento alla posizione del comproprietario riguardo al medesimo anno di imposta, nonché dello stesso Z. riguardo all'anno 2003).

2.1. Ai fini di un conveniente inquadramento del motivo di ricorso, va innanzitutto osservato che la sentenza impugnata ha richiamato, nella trattazione dedicata allo svolgimento del processo, il contenuto essenziale dell'appello del contribuente, in cui era dedotta la questione della validità ed efficacia nei confronti dell'Erario della risoluzione consensuale con effetto ex tunc del contratto di locazione, intervenuta successivamente alla notifica dell'accertamento («Tale sentenza è stata appellata dal contribuente, il quale sostiene che ...b) il contratto di locazione si è risolto ex tunc...»)-, la CTR ha, altresì, richiamato le controdeduzioni dell'A.d.E. in cui l'Ufficio sostiene che «il riferimento al canone di locazione opera fino a quando è in vita il contratto, risolto con effetti irretroattivi dal 27/10/2006»).

Tali espliciti riferimenti evidenziano che i giudici di appello hanno bensì considerato la specifica questione in esame, quantomeno sotto il profilo fattuale, risultando, del resto, incontestata fra le parti l'esistenza della richiamata dichiarazione risolutiva ed essendo controversa unicamente la sua efficacia - o, meglio, la sua opponibilità - nel confronti dell'Erario; da ciò deriva che, laddove nella parte motiva la CTR ha fatto esclusivo riferimento alla «azione giudiziale finalizzata allo sfratto, anche se il risultato non è immediato» quale strumento a disposizione del contribuente per non dover dichiarare, ai fini impositivi, somme mai incassate, deve ritenersi che lo stesso organo giudicante abbia, quantomeno implicitamente, escluso che analoga efficacia potesse attribuirsi alla predetta forma di risoluzione.

2.2. Ciò posto, il vizio di omessa motivazione sul punto lamentato dal ricorrente finisce per attenere, propriamente, ad una questione strettamente giuridica, concernente l'efficacia retroattiva dell'accordo risolutorio in esame e, in particolare, il profilo della sua opponibilità all'Erario.

In tale prospettiva, va ricordato che è sempre consentito alla Corte decidere nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma 2, cod. proc. civ., una questione di diritto che non richieda nuovi accertamenti di fatto, anche quando essa - ritualmente prospettata sia in primo che in secondo grado - sia stata ignorata dai giudici di merito, posto che, in tale eventualità, non solo non vi è stata alcuna limitazione al contraddittorio ed al diritto di difesa, ma la perdita per le parti di un grado di merito è compensata dalla realizzazione del principio costituzionale di speditezza, di cui all'art. 111 Cost. (Cass. Sez. 5, n. 8622 del 30/05/2012, Rv. 622784 - 01).

Nel medesimo senso, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U, n. 2731 del 02/02/2017, Rv. 642269 - 01), hanno statuito che «la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un'esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall'ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111, comma 2, Cost., ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 384 cod. proc. civ., di correggere la motivazione, anche a fronte di un "error in procedendo", quale la motivazione omessa, mediante l'enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell'implicito rigetto della domanda perché erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto».

Tanto premesso, il motivo di ricorso in esame è complessivamente da rigettare, essendo infondata la questione di diritto ad essa sottesa.

Va osservato, invero, che, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.P.R. n. 917 del 1986 ratione temporis vigente, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo - per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall'art. 8 della legge n. 431 del 1998 - è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità del conduttore costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto (Sez. 6 - 5, n. 19240 del 28/09/2016, Rv. 641116 - 01).

Con specifico riferimento all'ipotesi di scioglimento o risoluzione del contratto per mutuo consenso, secondo l'art. 1458, comma 1, cod. civ. (dettato in tema di risoluzione per inadempimento ma applicabile, salva diversa volontà delle parti, anche alla risoluzione consensuale), nei contratti ad esecuzione continuata o periodica l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, cosicché non viene meno l'obbligo di pagamento del canone di locazione per il periodo, precedente alla risoluzione, durante il quale il conduttore ha goduto (o avrebbe potuto godere) della disponibilità dell'immobile locato. Il secondo comma dell'art. 1458 cod. civ. prevede, inoltre, che la risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.

In tale quadro normativo, con riferimento alla sottoipotesi di accordo risolutivo al quale le parti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva, una pronuncia di questa Corte (Cass. Sez. 5, n. 24444 del 18/11/2005, Rv. 585870 - 01) ha affermato che «il solo fatto della intervenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla risoluzione, non è idoneo di per sé ad escludere che tali canoni concorrano a formare la base imponibile IRPEF, ai sensi dell'art. 23 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, salvo che non risulti la inequivoca volontà delle parti di attribuire alla risoluzione stessa efficacia retroattiva»-, in tale ultimo caso, la stessa decisione ha sottolineato che resta «impregiudicata, peraltro, ogni valutazione in ordine alla opponibilità di tale eventuale retroattività all'Amministrazione finanziaria». Proprio con riferimento al profilo dell'opponibilità dell'accordo risolutorio all'Amministrazione finanziaria, questa stessa Corte, con orentamento che il Collegio condivide, ha più volte ribadito che l'ipotesi di successiva risoluzione dell'accordo contrattuale per mutuo dissenso, ai sensi dell'art. 1372, comma 2, cod. civ. «non può avere alcuna rilevanza nei confronti dei terzi ed a maggior ragione quindi, nei confronti dell'Erario», non potendo, in particolare, pregiudicare la legittima pretesa impositiva medio tempore maturata per effetto di patti sopravvenuti tra le parti (cfr. Cass. Sez. 5, 19/12/2008, n. 29745/09, Rv. 606026 - 01; Cass. Sez. 5, 23/02/2011, n. 4366, Rv. 616722 - 01; nello stesso senso, Cass. Sez. 5, 30/04/2014, n. 9445); conclusione, questa,

rispetto alla quale neppure può assumere rilevanza, e tanto meno configurare la violazione degli artt. 3 e 111 Cost., la mera circostanza che l'Ufficio, esercitando i propri poteri di autotutela, abbia ritenuto di annullare altri accertamenti, nei confronti di soggetto diverso dell'odierno ricorrente o in relazione ad altre annualità.

3. La censura sottesa al secondo motivo viene ricondotta al vizio di violazione di legge in relazione all'art. 360, n. 3 cod. proc. civ., senza, peraltro, alcuna indicazione nella rubrica di quali siano le disposizioni che si assumono violate.

Lo svolgimento del motivo pone, comunque, in evidenza che lo stesso ha ad oggetto, da un lato, l'omessa pronuncia da parte della CTR in ordine a singole questioni prospettate dal contribuente in materia di risoluzione consensuale del contratto de quo o, in via subordinata, di risoluzione per inadempimento del medesimo accordo negoziale, ovvero, in ulteriore subordine, di novazione oggettiva delle relative obbligazioni contrattuali ex art. 1230 cod. civ.; dall'altro, la violazione dell'art. 23 t.u.i.r. ratione temporis vigente in relazione ad un'interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 53 Cost., che consenta al contribuente di dimostrare e far valere comunque, ai fini impositivi, la mancata percezione dei canoni di locazione.

3.1. Il motivo è inammissibile con riferimento alla dedotta omissione di pronuncia in cui sarebbe incorsa la CTR in ordine alle singole questioni sunteggiate nei termini indicati, posto che la stessa avrebbe dovuto essere fatte valere dal ricorrente ex art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.

Costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui la deduzione di un'ipotesi di omessa pronunzia da parte del giudice di merito «deve essere fatta valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., giacché queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa» (Cass. Sez. 6 - L, 12.1.2016, n. 329, Rv. 638341 - 01).

Risulta, perciò, applicabile il principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza 24.7.2013, n. 17931, Rv.627268-01, secondo cui «il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge».

Nella specie, risulta che, oltre alla mancata deduzione della violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., non si rinviene nel ricorso neppure alcun univoco riferimento alla nullità della sentenza e/o del procedimento derivante dalla lamentata omissione di pronuncia: da ciò consegue l'inammissibilità del motivo di ricorso sotto il profilo in esame (cfr. anche Cass. sez. 6 - 3, del 28/09/2015, n. 19124, Rv. 636722 - 01).

3.2. Infondata è, invece, la censura di violazione dell'art. 23 citato.

In tale ottica va, invero, osservato che la Corte costituzionale, con sentenza n. 230 del 2012, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del  combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1 e 4-bis, 118 e 134, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 sollevata, in riferimento agli artt. 53, 24 e 3 Cost., nella parte in cui tale disciplina assume quale base imponibile, ai fini della tassazione del reddito fondiario di un immobile locato, l'importo del canone locativo convenuto in contratto, anziché il reddito medio ordinario desunto dalla rendita catastale, anche quando, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito.

La Consulta, in ordine all'ipotizzato contrasto con l'art. 53 Cost., ha, in particolare, sottolineato che «la capacità contributiva, quale idoneità alla obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l'imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (v., da ultimo, sentenze n. 143 del 1995, n. 315 del 1994 e n. 42 del 1992), ipotesi che qui non ricorrono».

Quanto, poi, all'infondatezza della questione di illegittimità per violazione dell'art. 24 Cost., la Corte ha evidenziato che «non vi sono, sotto questo profilo, spazi di rilevanza per la eventuale prova del mancato pagamento, salvo le ipotesi, in appresso esaminate, che riguardano invece la cessazione del rapporto contrattuale di locazione e, quindi, il venir meno di un pagamento a titolo di canone locativo». In tal senso, la sentenza n. 230 ha richiamato le ipotesi di cessazione del rapporto di locazione per scadenza del termine (art. 1596 cod. civ.), ovvero quelle in cui si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto ex artt. 1453, 1454, 1456 e 1457 cod. civ., o, ancora, quella in cui sussista la possibilità di esercitare l'azione di convalida di sfratto (come forma mista diretta alla risoluzione e al rilascio).

Tanto premesso, va osservato che la decisione della CTR non si è affatto fondata su un'esegesi dell'art. 23 cit. difforme dall'interpretazione costituzionalmente orientata delineata dalla predetta sentenza della Corte costituzionale; ne consegue il rigetto del motivo sotto lo specifico profilo in esame.

4. In conclusione, deve essere dichiarata l'estinzione del giudizio per rinuncia in relazione al ricorso proposto nei confronti del Ministero deN'economia e delle Finanze. Nel resto, il ricorso deve essere, nel suo complesso, rigettato per i motivi illustrati.

Il ricorrente deve essere, conseguentemente, condannato al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi € 2.500,00 oltre spese prenotate a debito.

 

P.Q.M.

 

Dichiara estinto il giudizio per rinuncia in relazione al ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Rigetta nel resto il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi € 2.500,00, oltre spese prenotate a debito.