Computo dell'orario di lavoro: la distinzione tra riposo intermedio e temporanea inattività

Il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile invece a tali fini, anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, ovvero se possa disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o, pur restando inoperoso, sia obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità (Corte di Cassazione, ordinanza 09 ottobre 2018, n. 24828).

Una Corte di appello territoriale, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di un lavoratore nei confronti di una ditta individuale elettromeccanica, diretta ad ottenere differenze retributive, anche per lavoro straordinario. La Corte aveva argomentato, al pari del primo giudicante, che l'attività espletata dal lavoratore, consistita nella sostituzione delle lampade della pubblica illuminazione non funzionanti ed in lavori di piccola manutenzione presso alcuni Comuni della zona, non era legata a orari ed era gestita autonomamente dallo stesso in relazione allo scarso impegno di tempo che comportava. Di conseguenza, andava confermato che l'eventuale tempo trascorso nei vari Comuni, soltanto in parte dedicato ad effettive prestazioni di lavoro, non potesse essere qualificato come lavoro straordinario, neanche sotto l'aspetto del lavoro di attesa. Altresì, non poteva affermarsi che durante tutto il tempo il lavoratore fosse comunque a disposizione del datore di lavoro, considerata l'autonomia nell'organizzazione del lavoro sulla base di una generica disposizione di risultato. Infine, il tempo necessario per recarsi fuori sede poteva farsi rientrare nel normale orario di lavoro, tenuto conto che il medesimo non era obbligato a passare dalla sede aziendale all'inizio e al termine della giornata lavorativa, anche perché custodiva presso il proprio domicilio dell'automezzo di servizio.
Ricorre così in Cassazione il lavoratore, denunciando violazione di norma legge, nella specie l’art. 1 del D.Lgs. n. 66/2003, secondo cui per orario di lavoro si intende qualsiasi periodo in cui un soggetto sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, laddove invece la Corte di merito aveva dato rilevanza al concetto di lavoro effettivo e non considerato che il lavoratore durante tutto il tempo trascorso nei Comuni era stato costantemente a disposizione di parte datoriale senza possibilità di scelta del luogo in cui stare durante le ipotizzate soste e/o attese. Altresì, si contesta l’erronea affermazione della Corte territoriale per cui il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro non rientrava nella normale attività lavorativa, per il fatto che il ricorrente non fosse tenuto a passare dalla sede aziendale; ciò contrastando con l’orientamento che mette in rilievo al riguardo lo spostamento funzionale rispetto alla prestazione.
Per la Suprema Corte il ricorso è fondato. In primis, la pronuncia impugnata appare palesemente errata in diritto laddove, pur essendo pacifica la natura subordinata del rapporto di lavoro in questione, assume una non meglio indicata autonomia organizzativa sulla base di una disposizione di risultato, così dimenticando che l'obbligazione a carico del prestatore di lavoro subordinato è di mezzi. D'altro canto, non risulta contestata alcuna specifica inadempienza (assenze e/o ritardi) dal datore di lavoro al proprio dipendente in ordine alle conseguenti obbligazioni quotidiane, sicché deve presumersi la relativa prestazione in relazione alla sua necessaria effettiva durata, prestazione che di conseguenza va remunerata in misura corrispondente al tempo complessivo di messa a disposizione delle energie lavorative occorrenti finalizzata allo svolgimento dei compiti più strettamente operativi previsti. Appare poi priva di rilevanza la circostanza che l'automezzo di servizio (evidentemente di proprietà datoriale) si trovasse nella immediata disponibilità del lavoratore, presso il suo domicilio, fatto che anzi dimostra come l'inizio della prestazione oraria avesse luogo, direttamente, proprio con il mettersi alla guida del veicolo, perciò senza bisogno di recarsi presso la sede aziendale, al fine di spostarsi in Comuni diversi per rimanervi a disposizione.
Ai fini della misurazione dell'orario di lavoro, la norma (art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 66/2003) attribuisce espresso rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro. Al riguardo, il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile invece a tali fini, anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore; quest’ultimo, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità.