Obbligo di repechage, ai fini del corretto assolvimento rileva la situazione aziendale attuale

In tema di corretto assolvimento dell’obbligo di "repechage", la verifica della esistenza nell'organico aziendale di posizioni adeguate allo stato di salute del dipendente, non può che essere contestuale al momento nel quale il datore di lavoro decide di recedere dal rapporto in ragione della rilevata incompatibilità del dipendente con le mansioni di originaria adibizione. Tantomeno, può sussistere un obbligo per la parte datoriale di prefigurarsi, in un momento antecedente al suo realizzarsi, la eventuale situazione di incompatibilità e di modulare le proprie scelte tecnico organizzative in funzione di tale ipotesi, fatto salvo il limite del rispetto della correttezza e buona fede (Corte di Cassazione, sentenza 03 agosto 2018, n. 20497)

Il caso giudiziario riguarda un licenziamento intimato ad un lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica, avverso il quale il medesimo aveva proposto impugnazione. La Corte di appello territoriale, confermando la pronuncia del Tribunale di prime cure, aveva accertato l’illegittimità del licenziamento e condannato il datore di lavoro alla reintegra ed al risarcimento del danno. Il Giudice d'appello, nello specifico, aveva ritenuto che la società datrice avesse violato l'obbligo di "repechage", desumendolo dalla circostanza che la medesima, poco prima dell'intimazione del licenziamento, giustificato con la sopravvenuta incompatibilità dello stato di salute del lavoratore, invalido al 100% e portatore di handicap in situazione di gravità, con le mansioni della qualifica di ausiliario socio-sanitario, aveva proceduto ad assumere altro soggetto in mansioni compatibili con la situazione del dipendente poi licenziato. Altresì, il Giudice aveva ritenuto irrilevante il fatto che tale assunzione fosse giustificata dalla prassi della società di assumere i familiari dei dipendenti che spontaneamente lasciavano il posto di lavoro; una volta rese le dimissioni, infatti, si era verificata una scopertura di organico che dava diritto al dipendente ad essere ricollocato nelle mansioni pacificamente compatibili con il suo stato di salute.
Ricorre così in Cassazione, il datore di lavoro lamentando che la sentenza impugnata era stata adottata in violazione del principio secondo il quale gli usi negoziali, ai quali gli usi aziendali sono riconducibili, integrano il contratto in ragione della prevalenza accordata dalla legge alla manifestazione di autonomia privata e possono derogare al diritto dispositivo. La prassi più favorevole ai lavoratori, di assumere i figli dei dipendenti che spontaneamente lasciavano il posto di lavoro, non poteva recedere di fronte al diritto alla ricollocazione del lavoratore invalido divenuto inidoneo alla propria mansione, tale diritto non configurandosi come assoluto, bensì come relativo in quanto condizionato alla effettiva disponibilità di un posto di lavoro compatibile con lo stato di salute del dipendente e con la sua professionalità, secondo la insindacabile discrezionalità e libertà del datore di lavoro, di organizzare la propria attività imprenditoriale.
Il motivo di ricorso è fondato per la Suprema Corte. Al riguardo, secondo orientamento consolidato, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro. Tale impossibilità, infatti, viene meno ove il lavoratore possa essere adibito ad una diversa attività che sia riconducibile, alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. Tuttavia, nell'ottica del bilanciamento di opposti interessi costituzionalmente protetti, quale quello connesso alla conservazione del posto di lavoro (art. 4, Costituzione) e quello connesso alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Costituzione), non è possibile pretendere che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore. Soprattutto, la verifica della esistenza nell'organico aziendale di posizioni adeguate allo stato di salute del dipendente, al fine della corretta applicazione del principio del "repechage", esistenza che costituisce onere della parte datoriale allegare e provare, non può che essere contestuale all'intimazione del licenziamento, cioè al momento nel quale il datore di lavoro decide di recedere dal rapporto in ragione della rilevata incompatibilità del dipendente con le mansioni di originaria adibizione. Tantomeno può sussistere un obbligo per la parte datoriale di prefigurarsi, in un momento antecedente al suo realizzarsi, la possibile, futura, eventuale situazione di incompatibilità e di modulare le proprie scelte tecnico organizzative in funzione di tale ipotesi, fatto salvo il limite del rispetto della correttezza e buona fede.