Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 marzo 2017, n. 7289

Tributi - Accertamento - Studi di settore - Reddito imponibile - Adeguamento degli standard alla concreta realtà economica del contribuente

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza depositata in data 23/2/2012 la C.T.R. della Lombardia, in parziale accoglimento dell'appello proposto dall'Agenzia delle entrate, ha affermato la legittimità della rettifica del reddito imponibile a fini Ires, Irap e Iva per l'anno 2004, operata dall'ufficio nei confronti della contribuente S.M. S.p.A. sulla base degli studi di settore di cui all'art. 62-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, riducendo tuttavia ulteriormente l'ammontare dei ricavi presunti, rispetto a quanto già fatto dall'Ufficio, onde tener conto della riduzione delle ore lavorative prodottasi a seguito della parziale messa in cassa integrazione di parte delle maestranze.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società contribuente articolando due motivi.

L'Agenzia delle entrate ha depositato controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società contribuente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all'art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ..

Deduce in sintesi che:

- le sfavorevoli condizioni del ciclo economico in cui essa si è trovata ad operare, in particolare a causa della forte presenza dei paesi orientali sul mercato, con l'impiego di manodopera a basso costo, erano ben note all'Agenzia delle entrate che, con circolare n. 26/2002, aveva già avvertito, quanto ai possibili risultati dell'applicazione dello studio di settore SD20U, che, per tal motivo, «alcune attività possono risultare non congrue o non coerenti»;

- analogamente, con riferimento all'esorbitante aumento dei costi di produzione, la stessa Agenzia ne aveva riconosciuto, nella circolare n. 25/2005, relativa allo studio di settore TD20U, la possibile incidenza sugli esiti di non congruità della sua applicazione;

- in tale contesto l'Ufficio avrebbe dovuto provare in che modo la contribuente avrebbe potuto ottenere ricavi analoghi a quelli ottenuti nei periodi antecedenti siffatta contingenza economico-finanziaria;

- di tale onere motivazionale l'avviso di accertamento non si era invece fatto carico e i giudici di appello hanno omesso di rilevare tale lacuna, diversamente dai giudici di primo grado che avevano invece ritenuto che, nel descritto contesto, risultasse coerente la scelta imprenditoriale operata dalla società di ricorrere alla cassa integrazione guadagni per i propri operai;

- contraddittoriamente la C.T.R. ha negato la sussistenza di un incremento dell'incidenza del costo del venduto e di quello per la produzione dei servizi, trattandosi di circostanza riconosciuta della menzionata circolare;

- illogicamente i giudici hanno poi attribuito alle risultanze dell'applicazione dello studio di settore valore di elemento idoneo a sorreggere da solo l'accertamento, in mancanza di altri elementi che confermassero eventuali anomalie del comportamento fiscale della contribuente;

- erroneamente la C.T.R. ha a tal fine attribuito rilievo alla emersione di risultati non congrui anche negli anni antecedenti successivi a quello oggetto del controllo, valendo tale circostanza a dimostrare all'opposto l'inapplicabilità nel caso concreto delle risultanze dello studio di settore per ciascuno dei predetti anni, in quanto indicativa della natura strutturale, e non meramente congiunturale, delle condizioni negative di mercato;

- erroneamente, ancora, la commissione regionale ha ritenuto carente la prova del dedotto mancato utilizzo dei macchinari per la coniatura a freddo, dal momento che essa poteva per implicito logicamente desumersi dalla applicazione della cassa integrazione guadagni;

- i giudici di merito inoltre hanno omesso di attribuire rilievo alla circostanza, pur in sentenza menzionata, della dismissione, nell'anno 2004, di un bene immobile facente parte del patrimonio personale dell'amministratore della società: circostanza incompatibile con l'assunto occultamento di ricavi.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 62-bis e 62-sexies d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, in relazione all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto sufficiente a fondare l'accertamento il mero scostamento tra quanto dichiarato dalla contribuente e i dati elaborati dagli studi di settore, in mancanza di ulteriori elementi incidenti sull'attendibilità complessiva della dichiarazione.

3. È infondato il secondo motivo di ricorso, di rilievo preliminare.

Le sezioni unite della Corte, con le pronunce richiamate dalla stessa ricorrente (Cass. nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009), hanno rimarcato che il procedimento di accertamento standardizzato trova il proprio punto centrale nell'obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, che consente l'adeguamento degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, determinando il passaggio dalla fase statica (gli standard come frutto dell'elaborazione statistica) alla fase dinamica dell'accertamento (l'applicazione degli standard al singolo destinatario dell'attività accertativa).

Lo svolgimento del contraddittorio (e non dunque soltanto, né automaticamente, il mero scostamento tra i ricavi dichiarati e ricavi risultanti dall’applicazione dello studio di settore) propizia e giustifica la formazione di un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati, ma, appunto, dalla valutazione delle controdeduzioni del contribuente cui essi sono applicati (v. in termini, fra le varie, Cass. 06/08/2014, n. 17646; 31/01/2014, n. 2223; 11/05/2013, n. 11633).

Nel caso di specie, diversamente da quanto genericamente dedotto dalla ricorrente, non si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata alcuna affermazione che possa indurre a ritenere che, ai fini della valutazione della gravità, precisione e concordanza delle presunzioni di maggiori ricavi poste a fondamento della operata rettifica, la C.T.R. si sia mossa in prospettiva diversa da quella delineata dalla superiore ricostruzione della normativa applicabile.

Il giudice d’appello invero dà espressamente atto della instaurazione di regolare contraddittorio con il contribuente ed esprime anche una parzialmente positiva valutazione, ampiamente motivata, circa la disamina dedicata e il rilievo attribuito in quella sede ai documenti e agli elementi addotti dalla contribuente (elevati costi del venduto e della produzione di servizi, mancato utilizzo dei macchinari per lo stampaggio a freddo).

Ciò basta ad escludere la configurabilità nel caso di specie del vizio di violazione di legge dedotto con il motivo in esame, essendo appena il caso di rammentare che l’apprezzamento in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell’accertamento effettuato con metodo presuntivo attiene alla valutazione dei mezzi di prova ed è pertanto rimesso in via esclusiva al giudice di merito, salvo lo scrutinio riguardo alla congruità della relativa motivazione (v. ex aliis Cass. 16/03/2016, n. 5146; 30/10/2013, n. 24437).

4. Le censure che su tale piano muove la ricorrente con il primo motivo si appalesano poi inammissibili e comunque infondate.

Occorre al riguardo ribadire che - ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., nel testo, applicabile alla fattispecie ratione temporis, risultante dalla modifica introdotta dall’art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 - il vizio di motivazione si configura solamente quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato, insufficiente o contraddittorio esame di «un fatto controverso e decisivo per il giudizio», tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. Tale vizio non può invece consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass. 14/3/2006, n. 5443; Cass. 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce, infatti, al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass. 27/4/2005, n. 8718).

Appare chiaro che, invece, le censure svolte dalla ricorrente si muovono in una prospettiva del tutto diversa. Le doglianze si presentano infatti formulate in termini sostanzialmente assertivi e meramente oppositivi; la critica alle soluzioni adottate dal giudice di merito operata non già mediante puntuali contestazioni delle soluzioni stesse nell'ambito d'una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate, bensì mediante la mera contrapposizione - in sede di legittimità invero non consentita - di queste ultime a quelle poste a base dell'impugnata sentenza; non si segnala l'esistenza di elementi decisivi non considerati, ma solo si contesta la valutazione che di tali elementi, tutti invero presi in esame, è stata data dai giudici di merito.

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata, rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell'odierna ricorrente si risolvono nella mera doglianza circa l'asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass. 20/10/2005, n. 20322) e nell'inammissibile pretesa di una lettura dell'assetto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, il ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. 14/03/2006, n. 5443).

È appena il caso dunque di soggiungere che, comunque, le critiche mosse non si confrontano con l'effettiva ratio decidendi e comunque non sono idonee a prospettarne una evidente intrinseca illogicità: così, ad es., per quel che riguarda il rilievo attribuibile allo stato di crisi del settore, ne postulano falsamente una radicale omissione, laddove invece l'ufficio (e poi la C.T.R.) lo considerano quale fattore giustificativo di una sensibile riduzione dei ricavi presunti; quanto poi alla estensione degli esiti di non congruità negli anni immediatamente antecedenti e successivi a quello oggetto di accertamento, la critica non coglie il rilievo indiziario ad essa attribuita dall'ufficio, che non riposa sulla mera negazione del possibile verificarsi di stati di crisi, ma ben diversamente sulla regola esperienziale della implausibilità della prosecuzione pluriennale di un'attività antieconomica; la dismissione poi dell'immobile di proprietà dell'amministratore non può considerarsi circostanza di significato univoco e oggettivamente apprezzabile, né tanto meno decisiva, non valendo essa direttamente a spiegare le ragioni della persistente pluriennale antieconomicità dell'attività d'impresa.

5. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 8.200 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.