Giurisprudenza - TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO - Ordinanza 11 novembre 2016

Reati e pene - Reati tributari - Indebita compensazione - Omesso versamento delle somme dovute, utilizzando in compensazione, crediti non spettanti o inesistenti - Soglia di punibilità - Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), art. 10-quater, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23)

 

Il giudice di Busto Arsizio dott.ssa M.G.Z. nel procedimento penale a carico di N.C., imputato del delitto p. e p. dall'art. 10-quater del decreto legislativo n. 74/2000, poiché, in qualità di titolare della ditta individuale «E.C. di N.C.» con sede in Uboldo (VA), non versava le somme di denaro dovute a titolo di imposte sui redditi per l'anno 2009 per un importo complessivo pari a Euro 125.214,00 utilizzando in compensazione ai sensi dell'art. 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, un credito di imposta di pari importo (euro 125.214,00) relativo a presunti saldi IVA (cod. 6099) rivelatisi inesistenti in quanto riferiti ad annualità di imposta (2007/2008) per le quali lo stesso aveva omesso di presentare alcuna dichiarazione dei redditi. Commesso in Uboldo (VA) in data 5 ottobre 2010 (data di presentazione della dichiarazione per l'anno d'imposta 2009).

 Ritenuto che sussiste la propria legittimazione a proporre l'incidente di costituzionalità, posto che questo giudice è chiamato ad applicare - emettendo un giudizio potenzialmente definitivo - la norma di cui in epigrafe, cioè l'art. 10-quater, decreto legislativo n. 74/2000, nella formulazione ante 22 ottobre 2015, della cui legittimità costituzionale si dubita nella parte in cui prevede la soglia di punibilità in € 50.000, anziché € 150.000 per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo. 

La questione che si intende porre all'attenzione di codesta Corte e di immediata rilevanza nel processo de quo: stante, infatti, l'imputazione sopra riportata e l'indicato importo delle somme portate in compensazione in maniera asseritamente indebita, questo giudice non può con tutta evidenza prescindere in questo giudizio dall'applicazione della norma di cui all'art. 10-quater decreto legislativo n. 74/2000 che ritiene in contrasto con i principi costituzionali;

Infatti l'applicazione di detta disposizione normativa è fondamentale ed imprescindibile per la definizione del presente giudizio, pertanto si impone a questo giudice ex officio, per le ragioni che si esporranno di seguito, di sottoporre la questione a codesta Corte.

L'imputato N.C. è chiamato a rispondere del reato p.e p. dall'art. 10-quater decreto legislativo n. 74/2000 per avere, attraverso lo strumento della presentazione dei modelli F24 all'Agenzia delle entrate, prodotti ex art. 507 del codice di procedura penale, omesso di versare, utilizzando in compensazione ai sensi dell'art. 17 decreto legislativo n. 241/97 crediti IVA non spettanti ovvero inesistenti, la somma di complessivi € 125.214, per l'anno 2009.

 L'entità della imposta non versata con il meccanismo testè descritto discende documentalmente dai modelli F24 prodotti e dalla testimonianza del funzionario dell'Agenzia delle entrate, cui si aggiunge un'ulteriore somma indicata dallo stesso contribuente nella dichiarazione dei redditi per l'anno 2009 versata in atti. 

La ragione posta dal pubblico ministero a fondamento della propria tesi accusatoria è che - a fronte della utilizzazione di tali presunti crediti IVA - non esistono dichiarazioni dei redditi per gli anni 2007 e 2008 da cui siano evincibili detti crediti portati in compensazione.

Sostanzialmente il pubblico ministero lamenta e imputa, correlativamente, al contribuente, una autoreferenzialità di tali compensazioni che ha inibito all'Agenzia delle entrate di verificarne la legittimità, con la conclusione logica che tali crediti, di cui nulla si sa in ordine alla genesi, debbono ritenersi inesistenti.

Vi è da notare che i fatti sono contestati come commessi in data 5 ottobre 2010 - data di presentazione della dichiarazione dei redditi - anche se più correttamente, posto che tali crediti sono stati portati in compensazione attraverso la presentazione dei modelli F24, il tempus commissi delicti dovrebbe essere correlato alle date di presentazione dei medesimi modelli. 

Il reato di cui è chiamato a rispondere l'imputato rispecchia la formulazione ante decreto legislativo n. 158 del 24 settembre 2015 che richiamava - con la medesima tecnica normativa utilizzata anche per il reato p. e p. dall'art. 10-ter decreto legislativo n. 74/2000 - le pene previste dall'art. 10-bis decreto legislativo n. 74/2000, cioè la reclusione da sei mesi a due anni se l'ammontare delle imposte non versate sia superiore a € 50.000 annui. 

A seguito della novella legislativa sopra citata, la tecnica redazionale della norma in esame è mutata, e il legislatore ha descritto con maggiore analiticità - dando una configurazione autonoma anche sotto il profilo testuale a questa fattispecie di reato - la condotta penalmente sanzionata: si scinde la condotta in due differenti ipotesi, l'una che riguarda l'avere portato in compensazione crediti non spettanti e l'altra, di cui al secondo comma, che riguarda l'avere portato in compensazione crediti inesistenti.

 La pena per la condotta di cui al primo comma, ritenuta, con tutta evidenza, meno grave è identica a quella già prevista dall'art. 10-quater ante novella, cioè pena edittale da sei mesi a due anni, mentre la pena prevista per i fatti di cui al secondo comma, ritenuti più gravi, è stata notevolmente aumentata e prevede un minimo edittale di anni uno e mesi sei di reclusione e un massimo di sei anni. 

Ciò che non è stato cambiato dal decreto legislativo n. 158/2015 è la soglia di penale rilevanza della condotta che è rimasta indicata a € 50.000 per annualità.

 Questo giudice deve, quindi, preliminarmente, interrogarsi su quale delle disposizioni normative succedutesi nel tempo si debba applicare al caso concreto, posto che la norma vigente al momento della asserita commissione dei fatti è differente da quella vigente ad oggi.

 Ma, come si dimostrerà, la soluzione, evidente alla luce dei principi di cui all'art. 2 del codice penale non influisce minimamente sulla rilevanza della questione che si sottopone a codesta Corte che riguarda unicamente l'entità della soglia di punibilità del fatto, che è rimasta immutata. 

In ogni caso appare evidente come, trattandosi di crediti asseritamente inesistenti ed essendovi stato un inasprimento sanzionatorio proprio in relazione a tale condotta a seguito della riforma legislativa, si dovrà applicare la norma più favorevole al reo, ovverossia - stante i limiti edittali di pena inferiori - la formulazione dell'art. 10-quater ante riforma, che però - si ribadisce - non prescinde dalla soglia di punibilità di € 50.000, che non è stata elevata, a differenza di quanto accaduto per altre fattispecie di illeciti tributari, a seguito dell'entrata in vigore del più volte citato decreto legislativo n. 158/15. 

Pertanto ai fini della determinazione della rilevanza della questione si precisa che la norma di cui si dubita e che si sottopone al vaglio di codesta Corte è quella previgente la novella del 2015 che è l'unica che questo giudice, per le ragioni testè esposte, può applicare nel giudizio a quo.

 L'accoglimento della questione per come sopra proposta porterebbe, infatti, al proscioglimento dell'imputato, in quanto l'ammontare dell'imposta non versata a cagione delle compensazione con i crediti inesistenti è inferiore a € 150.000, cioè al limite di rilevanza penale introdotto dal legislatore del 2015 per la fattispecie di cui all'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000.  Non manifesta infondatezza della questione. 

La questione che si intende sollevare ha come antecedenti logico-giuridici la sentenza n. 80/2014 e l'ordinanza n. 116/2016 emessa da codesta Corte.

 Come è noto, con la prima pronuncia venne affrontata la questione della illegittimità costituzionale del limite di rilevanza penale della fattispecie di cui all'art. 10-ter decreto legislativo n. 74/2000, limitatamente ai fatti commessi ante 17 settembre 2011. 

La Corte acclarava l'illegittimità costituzionale di detta norma nella parte in cui per i fatti anteriori al 17 settembre 2011 puniva l'omesso versamento di IVA per importi non superiori a € 103.291,38.

 La Corte, infatti, rilevava «un evidente difetto di coordinamento tra la soglia di punibilità inerente al delitto che interessa (art. 10-ter) e quelle relative ai delitti in materia di dichiarazione di cui agli articoli 4 e 5 decreto legislativo n. 74/2000», tale difetto di coordinamento è «foriero di sperequazioni sanzionatorie manifestamente irragionevoli».

 Anteriormente alle modifiche legislative introdotte con il decreto-legge n. 138/2011, l'omessa dichiarazione era punita solo allorquando l'imposta evasa, con riferimento a ciascuna singola imposta fosse superiore a € 77.468,53: in questo caso colui che avesse - pur avendo regolarmente presentato la dichiarazione IVA - omesso di versarne l'importo autoliquidato che si collocasse fra i 50.000 e i 77.468,53 € veniva penalmente sanzionato in forza del disposto dell'art. 10-ter, mentre colui che avesse omesso completamente di presentare la dichiarazione IVA andava esente da qualunque conseguenza penale, pur essendo la prima condotta palesemente meno grave della seconda o, quanto meno, di pari gravità.

 Analogamente accadeva in relazione al reato p. e p. dall'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000, cioè nel caso di dichiarazione infedele, la cui soglia di rilevanza penale era ancora più alta, pari a € 103.291,38. 

Anche in questo caso il contribuente che avesse presentato una regolare dichiarazione IVA - autoliquidandosi un debito IVA per un importo ricompreso fra i 50.000 e i 103.291,38 euro - era sottoposto a sanzione penale, per contro il contribuente che avesse presentato una dichiarazione infedele per pari importo (sia come elementi attivi omessi, sia come elementi passivi fittizi inseriti) andava esente da qualunque sanzione. 

La soluzione adottata dalla Corte è stata, come è noto, quella di ritenere incostituzionale l'art. 10-ter per la parte in cui, per i fatti commessi anteriormente al 17 settembre 2011 richiedeva una soglia di punibilità inferiore alla più alta delle soglie considerate, cioè 103.291,38.

 A seguito di tale pronuncia che aveva evidenziato un doppio vulnus al principio di uguaglianza, il Tribunale ordinario di Lecce con ordinanza 24 aprile 2015 e il Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 21 settembre 2015 sollevavano la questione di legittimità costituzionale relativamente all'art. 10-quater decreto legislativo n. 74/2000.

 La Corte con ordinanza n. 116/2016 disponeva la restituzione degli atti ai giudici a quibus per una nuova valutazione della questione alla luce del mutato quadro normativo a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 158/2015. 

Appare quindi fondamentale vagliare il profilo di illegittimità costituzionale - sotto il profilo del vulnus al principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione - dell'art. 10-quater nella sua formulazione ante 2015, comparando tale fattispecie con l'attuale testo dell'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000, per la circostanza che il legislatore ha elevato le soglie di rilevanza penale del fatto: essendo tale mutamento di segno più favorevole al reo comporta una applicazione a tutti i fatti sia antecedenti sia successivi al 2015 di tale nuovo limite di punibilità. 

Pertanto, allo stato attuale accade che il contribuente che abbia presentato la dichiarazione IVA e abbia indicato in compensazione crediti inesigibili o inesistenti, con ciò omettendo il pagamento dell'imposta per una cifra superiore a € 50.000, sia assoggettato a sanzione penale, mentre il contribuente che abbia presentato una dichiarazione infedele, ex art. 4 decreto legislativo n. 74/2000, inserendo o elementi passivi fittizi o omettendo elementi attivi per un importo superiore a 50.000 ma non a 150.000 euro, vada esente da sanzione penale. 

Pare a questo giudice che si configuri in questo caso una lesione del principio costituzionale di uguaglianza in quanto due condotte che appaiono, anche sotto il profilo sanzionatorio, quanto meno di pari gravità, vengono trattate dal legislatore in maniera del tutto differente, senza alcuna ragione che giustifichi tale differenza di trattamento.

 Il reato di infedele dichiarazione, è, infatti, punito con una pena edittale da uno a tre anni di reclusione, mentre il reato di indebita compensazione è punito - nella formulazione che questo giudice deve applicare nel caso concreto, ante novella del 2015 - con la pena da sei mesi a due anni: appare evidente che il legislatore abbia considerato più grave e - conseguentemente, lo abbia sanzionato in maniera più grave - il reato p. e p. dall'art. 4 ma abbia consentito che condotte considerate astrattamente più gravi possano andare esenti da pena, laddove inferiori alla soglia di 150.000 euro, mentre condotte meno gravi, in quanto punite con pene inferiori, rientrino nell'area di penale rilevanza al mero superamento della soglie di 50.000 euro. 

Pertanto il trattamento che il legislatore riserva a chi sia imputato del reato p. e p. dall'art. 10-quater è ingiustificatamente deteriore rispetto al trattamento riservato a chi debba rispondere del reato p. e p. dall'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000. 

In ogni caso, tralasciando il regime sanzionatorio previsto per le due fattispecie di reato, anche a volere considerare l'oggettività delle condotte in esame e il disvalore delle stesse, non si può non notare che in entrambi i casi la condotta tipica ha una connotazione di tipo commissivo e di carattere fraudolento e/o decettivo che sicuramente rende più gravi tali fattispecie se rapportate - ad esempio - al reato di mera omessa dichiarazione, che infatti non si richiama come tertium comparationis, in cui la condotta è meramente omissiva e non commissiva. Per contro, le condotte tipiche che caratterizzano le due fattispecie qui considerate sono molto simili, perché richiedono un quid pluris, cioè una rappresentazione anche cartacea non veritiera della realtà. 

Nonostante, però, le evidenti analogie fra le due fattispecie che si è cercato di evidenziare, i trattamenti sanzionatori, ma soprattutto il limite di offensività della condotta indicato dal legislatore, appaiono irragionevolmente differenti, in misura del triplo e ciò a parere di questo giudice comporta un evidente vulnus al principio di cui all'art. 3 della Costituzione, cioè del principio di uguaglianza formale e sostanziale. 

Il disposto dell'art. 10-quater decreto legislativo n. 74/2000 laddove prevede un limite di punibilità pari a € 50.000 annuali  comporta un trattamento differente e deteriore rispetto all'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000 che prevede un limite di rilevanza penale di € 150.000, nonostante il legislatore abbia individuato una maggiore gravità nella seconda delle due fattispecie di reato e nonostante la sostanziale identità di disvalore concreto delle due condotte considerate. 

 

P.Q.M.

 

Sottopone all'Ecc.ma Corte costituzionale adita questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 10-quater decreto legislativo n. 74/2000, nella formulazione ante decreto legislativo n. 158/2015, nella parte in cui indica il limite di punibilità in € 50.000 annui anziché in € 150.000, per contrasto con il principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale; 

Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953;

Ordina la notificazione a cura della propria cancelleria della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché ai Presidenti delle Camere del Parlamento.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 22 febbraio 2017, n. 8.