Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 26 ottobre 2016, n. 21649

Licenziamento per giusta causa - Comportamenti scorretti - Contestazione disciplinare - Diritto di critica del lavoratore

 

Fatto

 

Con sentenza 12 giugno 2013, la Corte d'appello di Napoli dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato, con telegramma 18 luglio 2002, da P. s.r.l. in a.s. a G.M., suo dipendente dal 17 maggio 1993 e condannati P.D.A. (poi incorporata in P.) s.p.a., in quanto cessionaria dell'azienda dal 23 settembre 2005, alla sua reintegrazione nel posto di lavoro: così parzialmente riformando la sentenza di primo grado, che in particolare (per quanto oggetto di devoluzione in appello e ancora rilevante ai fini del presente giudizio) aveva invece accertato la legittimità del licenziamento per giusta causa.

A motivo della decisione, la Corte territoriale, contrariamente al Tribunale, escludeva la sussistenza della giusta causa.

Essa riteneva, infatti, che la lettera 13 giugno 2002 di denuncia del lavoratore alla datrice di comportamenti scorretti ed offensivi in proprio danno del superiore gerarchico, con allegato parere prò ventate di avvocato penalista (posta a base della contestazione disciplinare culminata nel licenziamento impugnato), dovesse essere inquadrata nell'esercizio del legittimo diritto di critica del dipendente. E ciò per il rispetto dei limiti di continenza sostanziale (per la ravvisata corrispondenza a verità dei fatti denunciati, in esito ad articolato ragionamento argomentativo) e di continenza formale (per il tenore corretto e civile delle espressioni usate e senza diffusione all'esterno dell'ambito aziendale, così da escludere ogni lesione all'immagine e al decoro della società datrice). Infine, la Corte capitolina escludeva pure, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto oltre che dell'assenza di precedenti contestazioni o sanzioni disciplinari a carico del lavoratore, la proporzionalità della sanzione espulsiva inflitta alla gravità del fatto contestato, certamente inidoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (neppure configurandosi un adempimento integrante giustificato motivo soggettivo).

Con atto notificato il 12 (18, 23) giugno 2014, P. s.p.a. ricorre per cassazione con tre motivi; G.M. e P. s.r.l. in a.s. sono rimasti intimati.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per il non corretto inquadramento della lettera del lavoratore (integralmente trascritta) nell'ambito del diritto di critica, in quanto contenente (non già una mera valutazione di fatti, ma) accuse di rilevanza penale (come confermato dall'allegato parere prò ventate di avvocato penalista) nei riguardi di altro dipendente: con la conseguente erronea esclusione della giusta causa integrata dal fatto contestato.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'erronea attribuzione a sé dell'onere probatorio (ritenuto non assolto) della non veridicità dei fatti denunciati dal lavoratore e della sua consapevolezza di ciò (integrante una preordinata volontà diffamatoria), avendo essa offerto la prova (documentale) posta a proprio carico dall'art. 5 I. 604/1966 con la lettera di M., a base esclusiva della contestazione disciplinare.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c., ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la conformità della sanzione espulsiva al principio di proporzionalità.

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., per il non corretto inquadramento della lettera del lavoratore nell'ambito del diritto di critica, è infondato.

Per insegnamento consolidato di questa Corte, è noto che, in tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, sia necessario che il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sugli articoli 24, primo comma e 21, primo comma, della Costituzione) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa (Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008). E il relativo accertamento costituisce poi giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato (Cass. 14 maggio 2012, n. 7471).

Nel caso di specie, il tenore della sua lettera (integralmente trascritta a pgg. 9 e 10 del ricorso) esclude che G.M. abbia travalicato i suddetti limiti di continenza sostanziale e formale, secondo l'accertamento in fatto correttamente operato dalla Corte territoriale, in esatta applicazione dell'insegnamento di questa Corte e in esito a logico ed argomentato ragionamento motivato (per le ragioni esposte a pgg. da 8 a 11 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità.

Ed infatti, con la lettera in esame, il lavoratore ha legittimamente esercitato il proprio diritto di critica nei confronti del comportamento tenuto dal proprio superiore, ma al tempo stesso ha sollecitato l'attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità (anche argomentando da: Cass. 5 agosto 2010, n. 18278, secondo cui, ferma l'esclusione di condotte pregiudizievoli dell'integrità fisica e morale dei prestatori d'opera per la prevalenza dei diritti fondamentali dei lavoratori sull'esigenza di funzionalità dell'impresa, il potere organizzativo del datore di lavoro comprende senz'altro la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità).

E ciò ha fatto rinnovando in modo evidente il proprio impegno di collaborazione e fedeltà, nell'adempimento degli obblighi posti a suo carico dagli artt. 2104 e 2105 c.c., nella parte conclusiva della lettera: "La serietà e la professionalità che ha sempre contraddistinto la mia persona all'interno e all'esterno del lavoro in Azienda mi impone di sollecitare un intervento dell'Amministratore della Società ... Immutata la mia disponibilità e il mio impegno sui lavoro, malgrado la denunziata sofferenza ... " (così nella trascrizione al secondo capoverso di pg. 10 del ricorso).

Dai superiori rilievi argomentativi si evince la palese inidoneità del comportamento contestato a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, integrante violazione del dovere posto dall'art. 2105 c.c., tale da costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008): con la conseguente infondatezza del mezzo, meritevole di rigetto.

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., per l'erronea attribuzione alla datrice di lavoro dell'onere probatorio di non veridicità dei fatti denunciati dal lavoratore e della sua preordinata volontà diffamatoria, è pure infondato.

La Corte territoriale ha correttamente applicato il regime di ripartizione dell'onere della prova, a carico indiscutibile del datore di lavoro per la sussistenza della giusta causa del licenziamento intimato, a norma dell'art. 5 I. 604/1966 (Cass. 16 agosto 2016, n. 17108; Cass. 9 novembre 2015, n. 23690; Cass. 19 agosto 2013, n. 19189).

La valutazione probatoria della lettera del lavoratore deve infatti essere collocata, cosi come esattamente dalla Corte partenopea, nell'alveo dell'integrazione della giusta causa di licenziamento, in quanto oggetto esclusivo della contestazione disciplinare alla sua base (di ingiusta e falsa incolpazione, con detta lettera, del preposto di P. e del suo diretto superiore, sig. C.C., di una serie di comportamenti scorretti ed offensivi nei suoi confronti: come accertato dalla Corte di merito al principio dell'ultimo capoverso di pg. 7 della sentenza).

Sicché, in tale prospettiva deve essere inteso il ragionamento probatorio svolto dalla Corte (in particolare al primo capoverso di pg. 10 della sentenza), non per nulla concluso con la chiara affermazione della ridondanza negativa di margini di dubbio "sulla sussistenza del fatti addebitati e posti a base del recesso".

Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l'esame del terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c., per la conformità della sanzione espulsiva al principio di proporzionalità), discende allora coerente il rigetto del ricorso, senza l'assunzione di alcun provvedimento sulle spese, essendo la parte vittoriosa rimasta intimata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater d.p.r. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.