Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 26 maggio 2016, n. 10950

Lavoro subordinato - Proporzionalità del licenziamento disciplinare - Valutazione del giudice di merito - Gravità dell’addebito

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 10.7.14 la Corte d'appello di Roma rigettava il reclamo ex art. 1 co. 58 legge n. 92/12 proposto dal dr. G.M. contro la sentenza n. 2177/14 con cui il Tribunale capitolino ne aveva confermato il licenziamento disciplinare per prolungate violazioni dell’orario di lavoro intimatogli il 28.1.13 dalla Casa di cura Città di Roma S.p.A.

Per la cassazione della sentenza ricorre il dr. G.M. affidandosi ad otto motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.

L'intimata Casa di cura Città di Roma S.p.A. resiste con controricorso.

Parte ricorrente ha poi depositato procura notarile con nomina di nuovo difensore, vista la rinuncia al mandato manifestata dal precedente.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo mezzo si deduce omessa pronuncia su un motivo di reclamo nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di non doversi pronunciare in punto di proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva per asserita assenza d'uno specifico motivo di reclamo a riguardo, nonostante che, in realtà, esso fosse stato appositamente dedotto nel momento in cui in reclamo si lamentava la mancanza di una infrazione tanto grave da giustificare la rottura del rapporto fiduciario tra le parti.

Il motivo va disatteso per difetto di autosufficienza in quanto non trascrive né allega l'atto di reclamo per evidenziare il passaggio in cui sarebbe stata mossa tale specifica censura.

2. Doglianza analoga a quella contenuta nel primo motivo di ricorso viene fatta valere con il secondo, sotto forma di violazione dell’art. 2119 c.c., in quanto la Corte territoriale avrebbe comunque dovuto procedere al giudizio di proporzionalità fra illecito disciplinare e sanzione espulsiva, proporzionalità connaturata all’esistenza stessa del concetto di giusta causa.

Il motivo è fondato.

Si premetta che l'impugnata sentenza, mentre afferma l'esistenza, nel caso che ne occupa, d'una giusta causa di licenziamento, aggiunge esplicitamente di non potersi pronunciare - per difetto di specifico motivo di reclamo - sulla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto all'infrazione contestata.

In tal modo i giudici di seconde cure danno conto in maniera inequivocabile di non aver apprezzato il necessario rapporto di proporzionalità (v. art. 2106 c.c.) fra illecito disciplinare e sanzione.

È - questo - un fatto processuale che vince l'ipotesi (ventilata dalla controricorrente) che nel configurare l'esistenza d'una giusta causa di licenziamento i giudici del reclamo abbiano, sia pure implicitamente, riconosciuto anche la proporzionalità fra sanzione e infrazione.

L'errore in cui incorre la gravata sentenza risiede nel ritenere che il giudizio di proporzionalità possa scindersi da quello circa la sussistenza o meno d'una giusta causa o d’un giustificato motivo di licenziamento, al punto da avere bisogno d'un apposito e specifico motivo di reclamo in assenza del quale al giudice di secondo grado non sarebbe consentito delibare la questione.

È vero, invece, il contrario, atteso che - per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema - il giudice di merito, investito del giudizio circa la legittimità d’un provvedimento disciplinare, deve necessariamente valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della disposizione normativa dell'art. 2119 c.c. - richiamato dall'art. 1 della legge n. 604/66 - alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).

In altre parole, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).

L’impugnata sentenza non si è attenuta a tale principio, ritenendo di dover arrestare la propria cognizione alla sola verifica della gravità in astratto - e non anche in concreto - dell’infrazione contestata all’odierno ricorrente sol perché il reclamante non avrebbe mosso una specifica censura in punto di proporzionalità della sanzione, limitandosi a protestare l'insussistenza dell'addebito.

Ma - giova ribadire - deve essere svolto anche d'ufficio l’apprezzamento relativo alla proporzionalità fra sanzione ed illecito disciplinare, poiché attiene alla sua stessa sussumibilità sotto il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento: diversamente, risulterebbe interrotta la sequenza logica "fatto - norma - effetto giuridico" attraverso la quale si afferma l'esistenza d'un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. Cass. n. 14670/15; Cass. n. 4572/13; Cass. n. 16583/12; Cass. 29.7.2011 n. 16808; Cass. n. 27196/06, Cass. 29.10.98 n. 10832; Cass. 10.7.98 n. 6769).

La singola impugnazione anche d'uno solo degli elementi di tale sequenza esclude che sugli altri si formi acquiescenza ex art. 329 cpv. c.p.c. e riapre per intero l'esame della statuizione intesa come minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno, imponendo al giudice dell'impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto (per verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione) quanto in punto di fatto.

3. Il terzo motivo denuncia violazione dell'art. 437 c.p.c. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto tardiva l'argomentazione difensiva circa l'antica e prolungata tolleranza, da parte della società, della flessibilità oraria della prestazione resa dal ricorrente: si tratta - prosegue il ricorso - non d’una eccezione in senso stretto, bensì di una circostanza fattuale verificabile anche d’ufficio da parte del giudice e comunque emersa all'esito delle difese della stessa società e delle deposizioni testimoniali.

Il motivo va disatteso.

Infatti, pur dovendosi qualificare l'assunto del reclamante come mera difesa in punto di fatto e non già come eccezione in senso stretto, nondimeno deve rammentarsi che mentre le argomentazioni giuridiche sono sempre e in ogni tempo suscettibili di essere portate all'attenzione del giudicante, non altrettanto può dirsi per le mere difese (o attività meramente assertive) con cui si contestino i fatti costitutivi dell'altrui pretesa.

Tale contestazione, se operata in secondo grado, è tardiva: essa, pur non integrando un'eccezione (né in senso lato né in senso stretto), risulta comunque preclusa ostandovi il divieto di contestazioni nuove, ossia non esplicate in primo grado (cfr. Cass. 28.2.14 n. 4854; Cass. 28.5.07 n. 12363; Cass. 16.2.2000 n. 1745) e ciò perché nuove contestazioni in secondo grado, modificando i temi di indagine, trasformerebbero il giudizio d'appello da mera revisio prioris instantiae in iudicium novum, il che è estraneo al vigente ordinamento processuale.

Inoltre, altererebbero la parità delle parti esponendo l'altra parte - a fronte della tardiva contestazione effettuata solo in appello dall'avversario - all'impossibilità di chiedere l'assunzione di quelle prove cui, in ipotesi, aveva rinunciato ormai confidando nella mancata altrui contestazione.

Dunque, è la logica stessa che presiede al principio di non contestazione e al giudizio d'appello ad escludere che in secondo grado possano introdursi nuove contestazioni in punto di fatto.

Unica eccezione a tale principio ricorre - ma, all'evidenza, non è questo il caso - in ipotesi di parte contumace in primo grado, la quale in appello ben può opporre eccezioni rilevabili d'ufficio e svolgere mere difese (cfr., e pluribus, Cass. n. 25281/09), senza però poter sollevare eccezioni in senso stretto e/o chiedere l'ammissione di mezzi di prova (se non nei limiti di cui a Cass. S.U, nn. 8203 e 8202/05).

4. L'esistenza d’una pregressa tolleranza aziendale viene fatta valere anche nel quarto motivo di ricorso sotto forma di violazione dell’art. 7 Stat. per mancata tempestività della contestazione disciplinare, in quanto mossa per fatti assai risalenti nel tempo.

Anche tale motivo non può trovare accoglimento perché, ad onta del richiamo normativo in esso contenuto, in realtà in esso si sollecita soltanto una rivisitazione nel merito del materiale istruttorio, operazione non consentita in sede di legittimità.

In altre parole, il ricorso si dilunga nell'opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non è idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui all’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134).

Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi del previgente testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perché a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale - come tale insindacabile - del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all'uopo le prove, controllarne l'attendibilità, l'affidabilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l'unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l'accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98).

Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell'apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell'esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.

A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito dei giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l'esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l'ipotesi non fondata sull'id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità.

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l'uso di inesistenti massime di esperienza né violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale Ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un'ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.

Né il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l'illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa), ma ritiene di poter suffragare la propria doglianza con il mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un'operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema.

In breve, la gravata pronuncia ha con motivazione immune da vizi logici o giuridici - escluso che sia emersa la prova di tale pregressa prassi aziendale di tolleranza della flessibilità oraria della prestazione resa dal ricorrente.

5. Il quinto motivo denuncia omessa pronuncia sull'eccepita genericità della contestazione disciplinare.

Il motivo va disatteso, sia pure integrandosi come segue la motivazione della sentenza impugnata, che effettivamente non si è pronunciata su tale specifico motivo di reclamo.

In proposito ritiene questa Corte di aderire all'orientamento (cfr. Cass. n. 28663/13) secondo cui la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame.

In siffatta evenienza la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall'ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 co. 2° Cost., ha il potere, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione, anche a fronte di un error in procedendo (tale essendo la motivazione omessa), mediante l'enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sempre che si tratti dì questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (altri precedenti propendono invece, sempre che non siano necessari nuovi accertamenti in punto di fatto, per la cassazione senza rinvio con decisione nel merito ex art. 384 co. 2° c.p.c.: cfr. Cass. n. 21968/15; Cass. n. 5729/12; Cass. n. 15112/13; Cass. n. 2313/10).

Ciò premesso in rito, la censura va disattesa per l'assorbente rilievo che la contestazione disciplinare - riprodotta nel controricorso - non è affatto generica, perché menziona la violazione dell'orario di lavoro (indicando che il ricorrente è stato mediamente presente solo per tre ore al giorno) e le necessarie coordinate topico-temporali dell'infrazione.

6. Il sesto motivo deduce violazione dell'art. 437 c.p.c. nella parte in cui la gravata pronuncia ha ritenuto tardiva la denunciata violazione dell'art. 51 Cost., nonostante che - in realtà - essa fosse stata sollevata già nel ricorso in opposizione ex art. 1 co. 51 legge n. 92/12 e che, ad ogni modo, integrasse unicamente una mera diversa prospettazione giuridica e non già una domanda o un'eccezione nuova.

Sempre in ordine all’art. 51 Cost. il settimo motivo ne denuncia la violazione avendone comunque la sentenza impugnata negato ogni rilevanza in base all'erroneo presupposto che, all'epoca del licenziamento, il ricorrente non fosse più consigliere regionale: si obietta - invece - in ricorso che tale carica è stata conservata dal dr. M. fino al 25.3.13, ossia fino all'insediamento del nuovo Consiglio regionale e che, pertanto, sino a tutto il protrarsi del mandato elettivo egli non poteva in nessun caso essere licenziato, neppure per giusta causa; inoltre, l'addebito mossogli poteva integrare, a tutto voler concedere, mero giustificato motivo.

I due motivi, da delibarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati per l'assorbente rilievo che il diritto di cui all'ult. co. dell’art. 51 Cost. non impedisce il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Come questa S.C. ha già avuto modo di osservare in passato (cfr. Cass. n. 3144/89), la ratio dell’art. 51 Cost. risiede nella necessità di porre il lavoratore chiamato a funzioni pubbliche elettive o a cariche sindacali nella condizione migliore per svolgere l’incarico, senza però collocarlo in una situazione di privilegio rispetto a quella degli altri dipendenti dello stesso datore di lavoro, avendo tale garanzia il solo scopo di escludere che l’accettazione del mandato comporti di per sé la perdita del posto di lavoro.

Ora, premesso che nel caso di specie non si controverte circa la mancanza di permessi per l'espletamento della carica elettiva (di consigliere regionale) o il diritto di chiedere l'aspettativa o in ordine ad un licenziamento intimato del solo fatto dell’accettazione della carica elettiva di consigliere regionale, la (pacifica) permanenza (durante il mandato elettivo del dr. M., già da tempo in corso) del sinallagma funzionale del rapporto di lavoro fra le parti conferma che il ricorrente ne conservava tutti gli obblighi, compreso quello del rispetto dell'orario di lavoro, sanzionabile in via disciplinare.

7. L’ottavo motivo di ricorso denuncia - infine - violazione dell’art. 4 legge n. 604/66 e dell’art. 3 legge 108/90, anche in relazione all’art. 51 Cost., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso la prova del dedotta carattere discriminatorio (per ragioni politiche connesse al passaggio del ricorrente alla formazione politica "F.I.") del licenziamento, sebbene esso emergesse dalla deposizione di due testimoni, come menzionata dalla stessa gravata pronuncia.

Il motivo va respinto perché scivola sul piano dell’apprezzamento nel merito delle risultanze istruttorie, che la Corte territoriale ha vagliato con motivazione immune da vizi logico-giuridici.

Valgano pertanto, anche in proposito, le considerazioni in punto di diritto già svolte nel paragrafo che precede sub. 3.

8. In conclusione, si accoglie il secondo motivo di ricorso e si rigettano le restanti censure, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto:

"Il giudice di secondo grado investito del gravame con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare deve verificare che l’infrazione contestata, ove in punto di fatto accertata o pacifica, sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale deliberazione, deve poi, anche d’ufficio, apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quando sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto all’adempimento dei suoi obblighi".

Pertanto, il giudice di rinvio come sopra individuato dovrà limitare la propria delibazione alla proporzionalità o meno del licenziamento disciplinare in relazione all’addebito per cui è causa, a tal fine valutandone tutti gli aspetti oggettivi (gravità della condotta, entità del danno arrecato etc.) e soggettivi (grado della colpa o intenzionalità della condotta e sua intensità) ed ogni altra circostanza di fatto ad essi inerente, traendone la conferma o la smentita che il fatto oggetto della contestazione disciplinare mossa al dr. M. sia stato tale da minare irrimediabilmente al fiducia del datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta le restanti censure, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.