Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 febbraio 2016, n. 2735

Previdenza - Debiti contributivi - Collaboratori - Sussistenza del rapporto di lavoro subordinato - Indici sintomatici della subordinazione

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 5.10.11 la Corte d’appello di Venezia rigettava il gravame di A. R. V. S.r.l. contro la sentenza n. 12/08 del Tribunale di Vicenza che, accogliendo parzialmente l’opposizione proposta da detta società contro le cartelle esattoriali notificatele per debiti contributivi, aveva dichiarato dovute solo le minori somme di € 144.300,64 e di € 19.701,80 per contributi omessi in relazione ad alcuni lavoratori dipendenti.

Per la cassazione della sentenza ricorre A. R. V. S.r.l. affidandosi a tre motivi.

L'INPS - in proprio e quale mandatario ex lege della S.C.C.I. S.p.A., Società di Cartolarizzazione dei crediti INPS - resiste con controricorso.

Il concessionario del servizio di riscossione per la provincia di Vicenza, U. S.p.A. - anche nei confronti del quale si sono celebrati i gradi di merito - non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 420 e 421 c.p.c., per avere i giudici di merito accolto la tesi dell’INPS circa la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con alcuni collaboratori della società sebbene i documenti prodotti dall'INPS non ne suffragassero l'assunto; peraltro - prosegue il ricorso - si trattava di documenti prodotti tardivamente, cioè nel corso del giudizio di primo grado, ma dopo il deposito della memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c.

Con il secondo e il terzo motivo ci si duole, rispettivamente, di violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2222, 2094 e 2095 c.c. e di vizio di motivazione per avere la sentenza impugnata erroneamente qualificato - malgrado l'esito dell’istruzione testimoniale espletata a riguardo - come subordinati i rapporti intercorsi con vari collaboratori della società, taluni addetti all'insegnamento di teoria e pratica della guida, altri a compiti di natura amministrativa.

2- Il primo motivo è infondato, avendo i giudici di merito correttamente acquisito d'ufficio i documenti de quibus.

Nel rito del lavoro l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, implica un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, purché i mezzi di prova (documentale, nel caso in oggetto) si riferiscano pur sempre a circostanze di fatto già ritualmente allegate dalle parti (come risulta nel caso di specie).

In breve, la decisione di merito è rispettosa del principio statuito da Cass. S.U. 20.4.05 n. 8202 (e da successiva conforme giurisprudenza di questa S.C.) secondo cui il sistema di preclusioni del rito speciale trova un contemperamento ispirato all’esigenza della ricerca della verità materiale, cui è doverosamente finalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento.

Tale contemperamento si rinviene nei poteri d’ufficio del giudice, esercitabili ai sensi degli artt. 421 co. 2° e 437 co. 2° c.p.c., in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova non indicati negli atti introduttivi di lite (salvo che si siano formati successivamente o che siano giustificati dallo sviluppo ulteriore del giudizio) ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitarsi pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo e nel contraddittorio delle parti stesse (cfr., per tutte, la già citata Cass. S.U. n. 8202/05).

3- Anche il secondo e il terzo motivo di ricorso - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - vanno disattesi perché, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, in realtà suggeriscono esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (documentale e testimoniale) affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.

In altre parole, il ricorso si dilunga nell'opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non è idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui all'art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134).

Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi del previgente testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perché a norma dell'art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale - come tale insindacabile - del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità, l'affidabilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98).

Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.

A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità.

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza né violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.

Né il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l’illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa), ma ritiene di poter enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema.

In breve, la gravata pronuncia ha - con motivazione immune da vizi logici o giuridici - accertato: l'indefettibile inserimento dei dipendenti nell'organizzazione produttiva della ricorrente; l’eterodirezione e la vigilanza, da parte della società, in ordine alla loro prestazione; l'utilizzo esclusivamente di strutture, servizi e materiali messi a loro disposizione dalla società; l'essere gli istruttori contattati dalla società, che affidava loro gli allievi; il pagamento di compensi commisurati alle ore in concreto effettuate; l'assenza di rischio economico da parte dei collaboratori; la continuità e l'assiduità della loro prestazione; la predeterminazione, da parte della società, del programma di insegnamento.

In tal modo i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei noti indici sintomatici della subordinazione come elaborati da antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema.

4- In conclusione il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità in favore dell’INPS, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Non è dovuta pronuncia sulle spese riguardo a U. S.p.A., che non ha svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge. Nulla per spese riguardo a U. S.p.A.