Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 febbraio 2016, n. 2734

Contratto di somministrazione - Comunicazione in caso di cessazione - Obbligo - Non sussiste

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 15.3.14 la Corte d’appello di Brescia rigettava il gravame di (...) contro la sentenza del Tribunale della stessa sede che ne aveva respinto, per intervenuta decadenza ex art. 32 co. 4° legge n. 183/10, la domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dei contratti di somministrazione in forza dei quali egli aveva lavorato presso la (...)S.p.A. tra il 2008 e il 2010, che erano stati impugnati dal lavoratore solo in data 9.5.12.

Per la cassazione della sentenza ricorre (...) affidandosi a due motivi.

(...) S.p.A. resiste con controricorso.

Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 32 co. 4° legge n. 183/10 e degli artt. 12 e 14 disp. prel. al c.c. per avere l'impugnata sentenza ritenuto che il termine di 60 giorni per impugnare il contratto di somministrazione decorra dalla scadenza del contratto medesimo anziché dalla comunicazione scritta della sua cessazione da parte dell'agenzia di somministrazione (comunicazione mai avvenuta nel caso di specie), vale a dire dal momento in cui il datore di lavoro rende noto al lavoratore il proprio intento di porre fine al rapporto; sostiene altresì il ricorrente che, a differenza di quanto avviene per le assunzioni a termine (per le quali è previsto un limite massimo di reiterazione di 36 mesi ai sensi del d.l. n. 24/14), per il ricorso al lavoro in somministrazione non è previsto alcun limite, sicché esso ben può essere reiterato per un numero indefinito di volte; a sostegno della tesi dell'inapplicabilità del termine di decadenza il ricorrente cita l’interpello n. 12/2014 del Ministero del lavoro.

Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell'art. 32 legge n. 183/10 e degli artt. 11 e 12 disp. prel. al c.c., per avere la Corte territoriale affermato l'applicabilità, a partire dal 1°.1.12, del termine di decadenza di cui all'art. 6 legge n. 604/66, come modificato dall'art. 32 cit., anche ai contratti di somministrazione stipulati prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 legge n. 183/10, sebbene si tratti di norma irretroattiva, come desumibile anche da Corte cost. 4.6.14 n. 155.

2- Per esigenze di logica espositiva va dapprima esaminato il secondo motivo di ricorso, che si rivela infondato.

Dispone l'art. 32 co. 4° legge n. 183/10: "Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, conte modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:

a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine;

b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;

c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento;

d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto. ".

Si premetta che non giova al l’interpretazione suggerita da parte ricorrente la sentenza n. 155/14 della Corte cost. nella parte in cui afferma che "L'applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza.".

Invero, tale affermazione della Corte cost. non prende autonoma posizione sulla correttezza dell'interpretazione proposta dall'ordinanza di rimessione (la cui individuazione è, infatti, compito del giudice della nomofilachia, vale a dire di questa Corte Suprema), ma si limita ad effettuare lo scrutinio di legittimità costituzionale della norma come interpretata dall'ordinanza del giudice remittente, che ipotizzava un'irragionevole disparità di trattamento fra l'ipotesi del contratto a termine - di cui alla lett. b) del cit. art. 32 co. 4° legge n. 183/10 - e le altre disciplinate dallo stesso articolo.

Ora, è l’interpretazione dell’ordinanza di rimessione a dover essere discussa, atteso che, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (v. Cass. n. 24233/14), l’incipit del comma 1 bis dell’art. 32 legge n. 183/10 introdotto dal cd. decreto "milleproroghe", ove si parla di una "prima applicazione’’ ("/n sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011"), oggettivamente evoca un meccanismo di nuovo conio per il quale è stato assicurato un adeguato arco temporale affinché i lavoratori e j loro difensori potessero adeguarsi alla nuova più rigorosa disciplina, che espone il dipendente licenziato all’onere di ben due diversi termini di decadenza.

Ciò non sarebbe stato necessario se tale nuovo meccanismo non fosse stato applicabile anche a contratti cessati prima dell’entrata in vigore dell'art. 32 cit.

Inoltre, l'art. 252 disp. att. c.c. testimonia della normale applicabilità di nuovi più brevi termini di prescrizione e decadenza anche a fronte di diritti sorti anteriormente.

È pur vero che nel caso che qui interessa si tratta non già dell'introduzione d'un più breve termine di decadenza, bensì dell'introduzione d'un termine di decadenza là dove prima non ve ne erano.

Tuttavia ciò non importa una retroattività propriamente detta, ma soltanto l'assoggettamento d'un diritto, già acquisito, ad un termine di decadenza per il suo esercizio.

Invero, secondo antico ma pur sempre attuale insegnamento di questa S.C. (v. Cass. n. 2705/82; Cass. n. 2743/75), si può parlare di retroattività normativa quando una disposizione di legge introduca, per fatti e rapporti già assoggettati all'imperio di una legge precedente, una nuova disciplina degli effetti esauritisi (facta praeterita) sotto la legge anteriore {con l’eccezione data dal limite della cosa giudicata), ovvero una nuova disciplina di tutti gli effetti di un rapporto posto in essere prima dell'entrata in vigore della nuova norma, senza distinzione tra effetti verificatisi anteriormente o posteriormente alla nuova disposizione.

Non sussiste, invece, retroattività ove la nuova norma disciplini gli atti di un procedimento, anche se riguardanti eventi ed effetti sostanziali già compiuti e si tratti della sua applicazione agli atti da compiere, oppure - ed è questa l'ipotesi che qui viene in rilievo - quando la nuova norma disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo lato sensu effetti di un pregresso fatto generatore (previsti e considerati nel quadro di una diversa normativa), siano distinti ontologicamente e funzionalmente (indipendentemente dal loro collegamento con detto fatto generatore), in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l’esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina.

In altre parole, è ammissibile l'applicabilità di una nuova legge alle situazioni esistenti o sopravvenute in un momento posteriore all’entrata in vigore della nuova legge, pur se determinate da un fatto anteriore, quando esse debbano essere considerate a prescindere dal fatto che le ha poste in essere e in modo che, attraverso tale applicazione, non resti modificata la disciplina giuridica del fatto generatore.

È - quest’ultimo - il caso dell’introduzione d'un termine di decadenza ove prima non ve ne erano, come nella vicenda in oggetto, in cui il potere d'azione, ossia il potere di chiedere in sede giurisdizionale l’accertamento della reale titolarità d’un rapporto di lavoro già esauritosi (in capo all'impresa utilizzatrice anziché in capo all'agenzia di somministrazione), era indubbiamente già sorto prima dell’entrata in vigore dell'art. 32 co. 4° legge n. 183/10, ma non si era ancora consumato (non essendosene verificata rinuncia o prescrizione alcuna né essendo intervenuto un giudicato a riguardo). Né l’introduzione d'un termine di decadenza modifica il fatto generatore del diritto, diritto che rimane acquisito nella sua unità concettuale, ma non anche nel suo contenuto di poteri e facoltà.

In questo senso ritiene il Collegio di andare in contrario avviso rispetto a Cass. n. 21916/15, secondo cui il regime della decadenza di cui all’art. 6 legge n. 604/66 (come novellato dall'art. 32 co. 4° I. n. 183/10 con la proroga di cui al comma 1 bis del medesimo articolo, introdotto dal d.l. n. 225/10, convertito con modificazioni in legge n. 10/11), si applica ai soli contratti di somministrazione a termine in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa (vale a dire alla data del 24.11.10) e non anche a quelli già scaduti a tale data, in assenza di una previsione analoga a quella dettata per i contratti a termine in senso stretto.

Un'apposita previsione sarebbe stata necessaria solo per derogare alla regola dell'art. 11 disp. prel. c.c., vale a dire per munire di retroattività la norma, mentre nel caso in esame non si è in presenza - come si è visto - d’una retroattività propriamente detta.

Non si vede, quindi, come si possa far decorrere il termine di decadenza di cui all'art. 6 legge n. 604/66 da una comunicazione che per legge non è necessaria, non rispondendo al vero (contrariamente a quanto si legge nella memoria ex art. 378 c.p.c. depositata da parte ricorrente) che l'art. 32 co. 4° lett. d) legge n. 183/10 abbia previsto in capo all’utilizzatore della prestazione lavorativa l’onere di comunicare la scadenza del rapporto, con la conseguenza che - in mancanza - il lavoratore avrebbe il diritto di impugnare sine die la somministrazione irregolare: in realtà tale norma si limita a prevedere l'applicabilità, anche all'ipotesi della somministrazione irregolare, dell'art. 6 legge n. 604/66 (come modificato dal co. Io dello stesso art. 32), che a sua volta non chiarisce espressamente (di qui la controversia in esame) se l'onere in discorso sussiste anche riguardo a rapporti cessati in forza non d’un atto di recesso, ma della scadenza del termine originariamente pattuito.

Né il potenziale rinnovo per un numero indefinito di volte del contratto di somministrazione (a differenza di quanto previsto per i contratti a termine dall'art. 5 d.lgs. n. 368/01) autorizza di per sé il lavoratore a nutrire un giustificato affidamento a riguardo, tale da far ritenere indispensabile una formale contraria comunicazione da parte del somministratore.

Infine, l'esegesi propugnata dal ricorrente chiama in causa l'interpello n. 12/2014 del Ministero del lavoro, che però - oltre a non vincolare l'interprete, non essendo fonte del diritto - ad ogni modo si riferisce non ai contratti di lavoro con illegittima pattuizione d’un termine, bensì ai licenziamenti nulli perché orali o privi della comunicazione dei motivi.

3- Anche il primo motivo di ricorso è infondato.

Nella vicenda per cui è processo, nella quale l’odierno ricorrente invocava, ex art. 27 d.lgs. n. 276/03 (applicabile ratione temporis), la costituzione d’un rapporto di lavoro direttamente in capo all’utilizzatore (l'odierna società controricorrente), il presupposto è dato da un contratto di somministrazione a tempo determinato che, come tutti i contratti con predeterminazione d'una data scadenza, cessa allo spirare del termine senza bisogno di comunicare recesso alcuno.

4- In conclusione il ricorso è da rigettarsi. Le spese del giudizio di legittimità si compensano, considerata l'esistenza d'un difforme precedente in materia.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.