Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 settembre 2015, n. 18435

Rapporto di lavoro - Illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro - Sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Volontà delle parti

 

Rilevato che

 

1. La Corte d'appello degli Abruzzi - L'Aquila ha confermato la sentenza di prime cure nella parte in cui aveva dichiarato l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, con decorrenza 13 luglio 2000, stipulato da P.I. s.p.a. con A.D.A e per l'effetto aveva dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In parziale riforma della suddetta sentenza ha rigettato la domanda del lavoratore concernente il risarcimento del danno.

2. Per la cassazione di tale sentenza P.I. s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ.; il lavoratore è rimasto intimato.

3. Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

1. A.D.A è stato assunto con un contratto a termine protrattosi dal 13 luglio 2000 al 30 settembre 2000; tale contratto è stato stipulato a norma dell'art. 8 del C.C.N.L. 26 novembre 1994 nella parte in cui prevede, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie.

2. La Corte territoriale ha ritenuto illegittimo il termine apposto a tale contratto; premesso che la citata norma contrattuale ha fissato, in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 23 della legge n. 56 del 1987, la quota percentuale massima del numero di lavoratori assunti con contratto a termine rispetto a quello dei lavoratori assunti a tempo indeterminato su base regionale (c.d. clausola di contingentamento), ha attribuito valore decisivo, ai fini della statuizione sull'illegittimità del termine, al rilievo che P.I. s.p.a., sulla quale, a fronte della contestazione della lavoratrice gravava il relativo onere, non aveva provato che l'assunzione in esame era avvenuta nel rispetto della suddetta clausola. In particolare la documentazione prodotta da P.I. s.p.a. non era idonea a fornire la prova richiesta. Sotto altro profilo ha rigettato l'eccezione, proposta da P.I. s.p.a., di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

3. Con il primo motivo la società ricorrente censura - denunciando violazione dell'art. 1372, primo e secondo comma, cod. civ., nonché vizio di motivazione la statuizione della sentenza impugnata che ha rigettato l'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

4. La suddetta censura è infondata. Secondo l'insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell'illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.

5. La statuizione concernente l'illegittimità del termine apposto al contratto è stata censurata con il secondo e terzo motivo di ricorso, con i quali è stata denunciata violazione dell'art. 2697 cod. civ., degli artt. 421 e 437 cod. proc. Civ., della legge n. 230 del 1962 e dell'art. 23 legge n. 56 del 1987 nonché vizio di motivazione. La società ricorrente contesta, in particolare, la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui attribuisce al datore di lavoro l'onere della prova del rispetto dei limiti percentuali posti dalla disciplina contrattuale per le assunzioni a termine. Ad avviso di P.I. s.p.a., infatti, l'onere di provare il rispetto della c.d. clausola di contingentamento incombe sul lavoratore che deve dimostrare l'illegittimità della clausola appositiva del termine. In ogni caso il mancato rispetto della suddetta clausola non comporterebbe, ad avviso della ricorrente, l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro in quanto questo rientra in una fattispecie disciplinata dalla legge n. 230 del 1962, alla quale non si applica la clausola di contingentamento.

6. Le censure sono infondate. In tema di prova dell'osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall'azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 19 gennaio 2010 n. 839 e, da ultimo, Cass. 19 gennaio 2013 n. 701) ha ripetutamente precisato che il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dall'art. 3 della legge n. 230 del 1962, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tale principio. Quanto alla conclusione della Corte territoriale circa la mancanza di prova del rispetto della clausola di contingentamento, essa è basata su motivazione priva di vizi logici e quindi insindacabile in questa sede di legittimità. Non può infine dubitarsi del fatto che il contratto di lavoro a termine stipulato in violazione della clausola di contingentamento debba considerarsi illegittimo. L'illegittimità si evince chiaramente non solo dalla formulazione dell'art. 23 della legge n. 56 del 1987, che costituisce la norma primaria regolatrice del contratto de quo, e che stabilisce che "i contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato", ma anche dall'interpretazione sistematica di tale norma che fissa parametri rigidi per l'individuazione delle fattispecie autorizzazione. In tal senso si è espressa, del resto, univocamente la giurisprudenza di legittimità (ivi compresa quella in precedenza citata) la quale ha costantemente confermato le sentenze di merito che avevano ritenuto illegittimo il contratto a termine stipulato in violazione della clausola di contingentamento.

7. Con riferimento al profilo relativo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, si pone il problema dell'applicabilità al caso di specie dello ius superveniens, rappresentato dall'art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.

8. In proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; ne consegue che, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso , investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine e che essi siano ammissibili. In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell'accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

9. Nel caso in esame non vi sono censure relative alle conseguenze economiche derivanti dalla declaratoria di illegittimità del termine e pertanto, per le ragioni sopra indicate, non vi sono i presupposti per applicare lo ius superveniens.

10. Il ricorso va pertanto respinto.

11. Nulla deve essere disposto in materia di spese atteso il mancato svolgimento di attività processuale da parte del lavoratore, rimasto intimato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla spese.