Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 settembre 2015, n. 18016

Lavoro - Lavoro straordinario - Retribuzione - Accertamento del prolungamento dell’orario

 

Fatto

 

Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Napoli rigettava il gravame proposto dall’ASL di Caserta avverso le decisioni del Tribunale di S. Maria C. V. che, in accoglimento delle domande proposte dagli attuali controricorrenti, aveva accertato il diritto di questi ultimi a percepire la retribuzione per il lavoro straordinario prestato, su imposizione datoriale, nella misura di 15 minuti per giorno lavorativo nel periodo da ciascuno indicato in ricorso.

La Corte territoriale rilevava che l’eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio era stata correttamente disattesa dal primo giudice in quanto la domanda proposta al Tribunale (di accertare che il prolungamento dell’orario lavorativo di 15 minuti preteso dall’azienda per ogni giornata in cui veniva erogato un buono pasto e per il periodo indicato integrava lavoro straordinario) configurava un’azione di accertamento in cui erano stati allegati tutti gli elementi essenziali costituiti: - dalla indicazione delle fonti contrattuali collettive che regolamentavano l’istituto della mensa (art. 29 c.c.n.l. Comparto Sanità del 20/9/2001); - dalle circostanze di fatto che i dipendenti si erano visti prolungare l’orario lavorativo in relazione alle giornate di effettiva percezione dei buoni pasto; - dalle numerose disposizioni aziendali sull’argomento. Precisava, altresì, la Corte che la specificazione delle concrete unità temporali in cui erano state rese le prestazioni di lavoro eccedente l'orario ordinario non assumeva valore essenziale nel configurare la domanda di accertamento ma al solo fine di formulare domanda di condanna determinata al pagamento delle differenze retributive per il lavoro straordinario reso. Nel merito osservava che correttamente il primo giudice aveva rilevato la insussistenza dei presupposti per la pretesa da parte dell’azienda nei confronti dei lavoratori del recupero giornaliero di 15 minuti di orario lavorativo come contropartita per la fruizione dei buoni pasto ai medesimi corrisposti in sostituzione del soppresso servizio di mensa aziendale in quanto: - non erano stati predisposti turni di sospensione dell’orario lavorativo necessari per il consumo del pasto nonostante l’azienda fosse a ciò obbligata dal disposto dell’art. 29 del c.c.n.l. citato; - la conseguente mancata interruzione dell’attività lavorativa faceva sì che il recupero di 15 minuti imposto altro non era se non una indebita imposizione di lavoro straordinario. Evidenziava, quindi, la Corte: - che con l’Accordo integrativo del 13/12/1996 le OO.SS. e la direzione generale dell’azienda avevano regolato l’esercizio del diritto al pasto dei dipendenti stabilendo che il pasto andava consumato fuori dall’orario lavorativo; - che detto Accordo era stato trasfuso nella nota n. 820 del 17/2/1997 in cui era previsto un prolungamento dell’orario di uscita dal servizio di 30 minuti (successivamente ridotto a 15 minuti) nell’arco della stessa giornata di consumo del pasto da attuarsi previa la predisposizione di un sistema di turnazione da parte delle direzioni delle strutture sanitarie e dei servizi atto ad evitare la interruzione delle attività assistenziali; - che con le circolari in data 27/1/1999 e 20/9/2000 il Direttore generale dell’ASL ricorrente aveva disposto che l’orario di uscita dei dipendenti era posticipato alle 15.15 per il recupero di 15 minuti al fine della fruizione del ticket giornaliero; - che la mancata attuazione del sistema delle turnazioni (circostanza questa da ritenere provata oltre che dalla difesa spiegata dall’azienda, soprattutto dalla documentazione prodotta dalla quale era emerso che non erano stati mai stabiliti i turni per la consumazione dei pasti secondo le esigenze di servizio di ciascun presidio) escludeva la possibilità di effettive pause per la fruizione dei buoni pasto e, dunque, non poteva trovare giustificazione alcuna il preteso prolungamento di 15 minuti dell’orario ordinario di lavoro, visto che non vi era nessuna pausa da recuperare e, quindi, i buoni pasto erano spendibili solo fuori del detto orario lavorativo. La Corte di Appello sottolineava che non poteva sussistere un rapporto di corrispettività contrattuale tra concessione di buoni pasto fruibili solo fuori dell’orario di lavoro (senza alcuna incidenza sulla continuità temporale della prestazione lavorativa per le ragioni esposte) ed il preteso recupero dell’orario di lavoro attraverso il prolungamento dello stesso in misura di 15 minuti al giorno.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’ASL Caserta affidato a due motivi.

Resistono con controricorso i lavoratori.

La ASL ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.

 

Diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso viene denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100 e 414 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte del merito erroneamente affermato l’interesse ad agire in accertamento dell’asserito diritto alla retribuzione di prestazioni aggiuntive senza "la specificazione delle concrete unità temporali in cui sono state rese le prestazioni di lavoro eccedente" considerando tale specificazione come priva di "valore essenziale". Si sostiene che l’azione in giudizio è data solo per accertare diritti soggettivi e non per chiedere parere al giudice su situazioni astratte ed ipotetiche e che o era carente l’interesse ad agire, essendo richiesto non l’accertamento di diritti soggettivi ma un mero parere sulla qualificazione di un’ipotesi, o il ricorso era da ritenere nullo per omessa deduzione dei concreti specifici fatti costitutivi del diritto al compenso dell’asserito lavoro straordinario.

2. Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2108 e 2697 cod. civ. e degli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 66/2003, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per asserita violazione del principio per cui l’onere di deduzione e prova dell’asserito lavoro straordinario grava sul lavoratore. Osserva la ricorrente che la domanda si fondava su un’asserita mancata effettuazione della pausa che avrebbe determinato, insieme al recupero che la presupponeva, un lavoro straordinario pari al tempo della pausa non effettuata, essendo pacifica l’effettuazione del recupero, e che in tale situazione l’onere di deduzione e prova della mancata effettuazione della pausa dovuta, avendola lavorata in ciascun giorno dei numerosi anni oggetto di causa, gravava sui lavoratori ricorrenti. Richiama, in proposito, la costante giurisprudenza di questa Corte in materia di indennità per ferie non godute secondo cui il riconoscimento di detta indennità è condizionato all’onere di deduzione e prova del lavoro svolto nell’intero anno e quindi del mancato godimento della pausa feriale.

2. Il primo motivo è infondato.

Vale ricordare che l’interesse ad agire con un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attuale verificarsi della lesione di un diritto o una contestazione, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico o sulla esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, non superabile se non con l’intervento del giudice (cfr. Cass. n. 13556 del 26 maggio 2008; Cass. n. 17026 del 26 luglio 2006).

La sezione lavoro di questa Corte ha ulteriormente precisato che detto stato di incertezza oggettiva può anche non essere preesistente rispetto al processo con la conseguenza che in materia di lavoro subordinato, l’azione di accertamento può riguardare l’esatta determinazione dei compensi spettanti, anche laddove non siano ancora maturati i presupposti di fatto di tutte le voci della retribuzione ed il lavoratore non chieda alcuna condanna a carico del datore di lavoro (cfr. Cass. n. 4496 del 21 febbraio 2008).

E’ stata pure ribadita la ammissibilità, anche nel rito del lavoro, di una sentenza di condanna generica (non limitata alle ipotesi di sentenza non definitiva con rinvio della liquidazione del "quantum" alla prosecuzione del giudizio), ben potendo la domanda essere limitata fin dall’inizio all’accertamento dell' "an", con conseguente pronuncia di condanna generica, che definisce il giudizio, e connesso onere della parte interessata di introdurre un autonomo giudizio per la liquidazione del "quantum" (si vedano Cass. n. 4587 del 26 febbraio 2014; Cass. n. 8576 del 5 maggio 2004).

Orbene, proprio alla luce dei riportati principi è evidente la ricorrenza di un interesse ad agire degli originari ricorrenti i quali, stante lo stato di incertezza oggettiva sulla esatta portata dei diritti e degli obblighi da scaturenti dal rapporto di lavoro con la ASL di Caserta e relativo alla qualificazione o meno di "lavoro straordinario" del prolungamento dell’orario ordinario di lavoro di 15 minuti preteso dall’azienda nel periodo precisato in ricorso, hanno chiesto l’intervento del giudice per superarlo. Peraltro, risulta evidente che nel caso in esame non è stato chiesto l’accertamento dell’infondatezza di una pretesa avanzata nei confronti dei dipendenti da parte dell’ASL, bensì il positivo accertamento che il prolungamento dell’orario lavorativo già verificatosi (per quanto appresso si dirà) era da qualificarsi come "lavoro straordinario", in vista dell’utile risultato di poter richiedere, in un separato giudizio di quantificazione, la condanna al pagamento di differenze retributive calcolate in relazione ai giorni in cui effettivamente detto prolungamento dell’orario lavorativo sarebbe stato rigorosamente provato.

Da quanto esposto discende la correttezza dell’affermazione della Corte di merito laddove chiarisce che le domande proposte non erano affette da nullità essendo stati idoneamente allegati i fatti rilevanti e le fonti regolatrici del rapporto obbligatorio dedotto in causa e che la specificazione delle concrete unità temporali in cui erano state rese le prestazioni di lavoro eccedenti l’orario ordinario non assumeva valore essenziale nel configurare la domanda di accertamento.

Che le parti, attraverso l’indicazione delle circostanze di fatto rilevanti e delle fonti regolatrici del rapporto obbligatorio dedotto in causa nei termini sopra specificati, avessero correttamente prospettato l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, era emerso, del resto, dalla stessa posizione difensiva della società che, come si evince anche dalla sentenza impugnata, era stata non solo "piena" in rapporto alle deduzioni attoree ma decisamente finalizzata a contrastare, con l’offerta ricostruzione delle condotte aziendali e sindacali realizzatesi nel corso del tempo, la riferita eliminazione di una pausa mensa e contestuale imposizione di un recupero giornaliero non retribuito.

4. Del pari infondato è il secondo motivo.

Nello storico di lite sono stati riportati i passaggi logici percorsi dalla Corte di merito per giungere a ritenere che il prolungamento dell'orario lavorativo preteso dall’ASL in concomitanza dell’erogazione dei buoni pasto non andava a compensare alcuna pausa effettuata per fruire dei detti buoni. Ed infatti, il giudice del gravame, una volta acclarato che l’ASL non aveva provveduto a stabilire dei turni per consentire la fruizione dei buoni pasto stante la necessità di garantire la continuità assistenziale ha ritenuto provata la mancata effettuazione della pausa.

Peraltro, nella impugnata sentenza è stato anche sottolineato come la difesa dell’ASL non aveva negato la mancata predisposizione di turni ma aveva dedotto che, comunque, i dipendenti avevano speso i "tickets restaurant" loro assegnati mensilmente e che non poteva sussistere un rapporto di corrispettività contrattuale tra la concessione di buoni pasto fruibili solo fuori dell’orario di lavoro, senza alcuna incidenza sulla continuità temporale della prestazione lavorativa quotidiana, ed il preteso recupero dell’orario di lavoro attraverso il prolungamento dello stesso in misura di 15 minuti.

In effetti l’ASL, non negando di aver preteso il prolungamento dell’orario di lavoro ordinario (circostanza risultante documentalmente), ha dedotto che lo stesso era in rapporto di corrispettività con la fruizione dei buoni pasto ed integrava un recupero della pausa attuata dalla dipendente per consumare il buono pasto. In siffatta situazione correttamente il giudice del merito ha ritenuto che dalla mancata predisposizione dei turni si potesse desumere la insussistenza di pause durante l’orario lavorativo ordinario destinate al consumo dei pasti presupposto per il preteso loro recupero attraverso il prolungamento dell’orario lavorativo.

Ciò invero non confligge con il principio dell’onere della prova posto che, desunta la prestazione ininterrotta dagli indicati elementi (erogazione dei buoni pasto utilizzabili solo al di fuori dell’orario di lavoro; mancata predisposizione dei turni per usufruire del servizio mensa sostitutivo pur in presenza di un obbligo contrattuale in tal senso, in un contesto di continuità assistenziale) non poteva che essere a carico dell’Azienda la prova contraria.

Nessun rilievo, infine, possono avere in questa sede le metagiuridiche considerazioni in merito alla compatibilità di una pausa di 15 minuti pranzo con la continuità assistenziale.

5. Alla luce di quanto esposto il ricorso va, dunque, rigettato.

6. Quanto alla domanda ex art 96 cod. proc. civ. formulata dalla difesa dei controricorrenti, questa Corte osserva che la condanna per lite temeraria può essere pronunciata solo se la parte ha agito o resistito con mala fede o colpa grave. Con riguardo al giudizio di cassazione ai fini della responsabilità aggravata ex art 96 cod. proc. civ., l’istanza di condanna deve essere formulata con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l’accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all’esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza (cfr. Cass. n. 21805 del 5 dicembre 2012; Cass. n. 20914 dell’11 ottobre 2011); inoltre il ricorso può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Cass. 2 giugno 1995, n. 6190; conf. Cass. 26 giugno 2007, n. 14789).

Applicando i detti principi al caso di specie si osserva che la domanda di condanna per lite temeraria, oltre a non essere stata prospettata con riferimento a tutti i motivi di ricorso (il primo dei quali è, come sopra precisato, di tipo processuale) è avulsa dal presupposto imprescindibile (prova dell’altrui malafede ovvero di un grado di imprudenza, imperizia o negligenza nell’agire in giudizio accentuatamente anormale, ciò sempre con riferimento a tutti i motivi di ricorso) oltre che ingiustificata per la mancanza di allegazione e prova di un danno subito a causa della condotta temeraria della controparte, diverso ed ulteriore rispetto alla necessità di doversi difendere in giudizio (risultando, a tal fine, del tutto inidoneo il richiamo a principi affermati con riguardo alla legge n. 89/2001).

L’istanza ex art. 96 cod. proc. civ., pertanto, non può essere accolta.

7. Per il principio della soccombenza le spese del presente giudizio sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo con attribuzione in favore degli avv. V.M., P.F. e A.G. per dichiarato anticipo fattone.

8. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: "Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso".

Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi ed euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso spese forfetario in misura del 15%, con attribuzione ai difensori antistatari.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.