Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 settembre 2015, n. 18024

Lavoro - Inquadramento - Accesso nei ruoli regionali - Differenze retributive - Quantificazione

 

Ragioni della decisione

 

1. La Corte d’appello dell’Aquila ha rigettato il ricorso della regione Abruzzo contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato il diritto della parte intimata indicata in epigrafe alla perequazione della retribuzione individuale di anzianità (r.i.a.) a quella percepita da altri dipendenti inquadrati in pari ruolo. Ciò a norma degli articoli 1, L.R. Abruzzo n. 16 del 2008; 43, L.R. Abruzzo n. 6 del 2005, e 1, L.R. Abruzzo n. 118 del 1998, fino all’abrogazione sopravvenuta per effetto della L.R. Abruzzo n. 24 del 2011, condannando di conseguenza la Regione a corrispondere al dipendente le relative differenze retributive maggiorate degli interessi legali.

2. La Corte di merito, per quello che interessa in questa sede, ricostruito il quadro normativo di riferimento e precisato che il meccanismo perequativo di cui alla legge regionale, n. 118 del 1999, come modificata dalla legge regionale n. 6 del 2005, era stato esteso, per effetto della legge regionale n.16 del 2008, a tutti i dipendenti regionali aventi medesimo inquadramento in ruolo e qualifica in qualunque modo vi avessero avuto accesso, riteneva riferibile l’operatività del predetto meccanismo perequativo non già all’epoca dell’immissione in ruolo del dipendente interessato all’equiparazione, quanto piuttosto al momento dell’accesso nei ruoli regionali del dipendente proveniente dall’esterno che godeva di una più elevata retribuzione di anzianità in relazione alla quale doveva attuarsi la perequazione.

3. La Regione Abruzzo ricorre in Cassazione sulla base di tre motivi. La controparte si è difesa con controricorso ed ha depositato una memoria.

4. Deve essere esaminata prima di tutto l’eccezione di tardività del ricorso per cassazione formulata dalla parte controricorrente in memoria. Si sostiene che il ricorso per cassazione sarebbe tardivo perché il termine di 60 giorni nel caso specifico deve essere calcolato con decorrenza non dalla notifica del provvedimento impugnato (nel qual caso sarebbe in termini), bensì dalla comunicazione a mezzo p.e.c. all’Avvocatura dello Stato.

5. L’eccezione non è fondata.

6. E necessario precisare che la Corte d’appello dell’Aquila si è pronunciata con ordinanza ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., dichiarando l’appello inammissibile perché non aveva ragionevole probabilità di essere accolto. Il ricorso per cassazione è stato quindi proposto contro il provvedimento di primo grado ai sensi dell’art. 348-ter, terzo comma, c.p.c.

7. La seconda parte di tale comma disciplina la decorrenza del termine per proporre ricorso per cassazione, disponendo: "In tal caso, il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità. Si applica l’art. 327 in quanto compatibile".

8. Quindi, il provvedimento oggetto dell’impugnazione è la sentenza di primo grado, ma il termine per ricorrere per cassazione decorre dalla comunicazione o notificazione (se anteriore) della ordinanza di inammissibilità emessa dal giudice di appello.

9. La parte che solleva l’eccezione sostiene che nel caso in esame la comunicazione dell’ordinanza sarebbe stata anteriore alla notificazione e sarebbe avvenuta il giorno 11 luglio 2013 a mezzo posta elettronica certificata. Poiché il ricorso per cassazione è stato rimesso per la notifica all’ufficiale giudiziario in data 2 ottobre 2013, esso risulterebbe tardivo e quindi inammissibile.

10. Per dimostrare il proprio assunto la parte che solleva l’eccezione richiama i documenti nn. 1 e 2 del fascicolo depositato in Cassazione. Tali documenti sono un "biglietto di cancelleria" della Corte d’appello "notificato alla p.e.c. in cancelleria" in data 11 luglio 2013, in cui si comunica il deposito di un provvedimento relativo all’appello di cui si dice "dichiarato inammissibile", indicando il numero di ruolo, il giudice, le parti. Mentre il provvedimento allegato come documento successivo non è un’ordinanza, bensì una sentenza emessa dalla medesima Corte nella controversia tra la regione Abruzzo ed altro lavoratore: L.E.M. Sentenza pubblicata il 10 aprile 2013, con la quale il ricorso non viene dichiarato inammissibile, ma viene rigettato.

11. Pertanto, viene solo provato che con comunicazione via p.e.c. del giorno 11 luglio 2013 fu comunicato all’Avvocatura un provvedimento di inammissibilità, senza specificare nè il tipo di provvedimento (ordinanza o sentenza), né tanto meno che si trattasse di ordinanza ex art. 348-bis, c.p.c.

12. Tale comunicazione non è idonea a far decorrere il termine per il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 348-ter, terzo comma, c.p.c.

13. Come si è visto, questo termine decorre "dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, della ordinanza, che dichiara l’inammissibilità". Dalla lettura degli artt. 348-bis e ter si deduce che la comunicazione deve, quanto meno, precisare che trattasi di ordinanza di inammissibilità ex art. 348-bis. Quindi ordinanza (e non sentenza) e di inammissibilità dell’appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento (non di inammissibilità per altre ragioni, di cui alla prima parte dell’art. 348-bis).

14. L’indispensabilità di questa precisazione nella comunicazione della cancelleria deriva, oltre che dall’interpretazione letterale, anche da ragioni di carattere teleologico e sistematico. Infatti, se la disciplina della decorrenza del termine per ricorrere in Cassazione è speciale nel caso in cui il giudice di appello abbia emesso una ordinanza di inammissibilità ex art. 348-bis, la parte che riceve la comunicazione deve, quanto meno, essere messa in grado di sapere che è stato emesso un provvedimento di quel tipo, implicante un regime speciale d’impugnazione.

15. Nel caso in esame, non è stato comunicato il testo dell’ordinanza e non si è neanche precisato che si trattava di un’ordinanza ex art. 348-bis. La parte destinataria della comunicazione non è stata quindi messa in grado di comprendere che il provvedimento era del tipo previsto dall’art. 348-bis, c.p.c., e che aveva, di conseguenza, l’onere di impugnarlo con le modalità e con la decorrenza termini previste dal terzo comma dell’art. 348-ter, c.p.c.

16. Anche nell’ordinanza di questa Corte in cui si sostiene che, pur a seguito della modifica del secondo comma dell’art. 133, c.p.c. (introdotta dall’art. 45, primo comma, lett. b, del d.l. 90/2014, convertito con modificazioni in l. 114/2014), per la decorrenza del termine d’impugnazione previsto dall’art. 348-bis, c.p.c. è irrilevante che la comunicazione contenga il testo integrale del provvedimento, si ha tuttavia cura di precisare che la comunicazione deve permettere di comprendere la natura del provvedimento (Cass., terza sezione, 5 novembre 2014, n. 23526, paragrafo IV.4, ultimo capoverso, nonché paragrafo III.2, in cui si precisa che il termine "non decorrerebbe, in estensione delle conclusioni già raggiunte per fattispecie analoghe, ove in concreto fosse del tutto impossibile ricavare dalla comunicazione trattarsi di ordinanza resa ai sensi dell’art. 348-bis, c.p.c. ed in quanto tale, idonea a far decorrere il termine ordinario suddetto avverso il provvedimento di primo grado")

17. Pertanto, nel caso in esame il termine per proporre ricorso per cassazione non può essere computato con decorrenza dalla comunicazione della cancelleria e di conseguenza il ricorso non è tardivo.

18. Come si è detto, il ricorso è articolato in tre motivi. Con il primo si deduce la violazione dell’art. 43 della L. R. Abruzzo n. 6 del 2005 come modificato dall’art. 1 comma 2 della L. R. Abruzzo n. 16 del 2008 alla luce degli artt. 36 e 117 della Costituzione e si rileva che l’impianto della normativa regionale, su cui si fonda l’impugnata sentenza, risulta adottato in violazione della riserva di competenza alla contrattazione collettiva del profilo retributivo del personale dipendente della Regione Abruzzo, oltre che in violazione dei criteri di riparto fra legislatore statale e regionale nonché del parametro regolatore di cui all'art. 36 Cost. Si chiede pertanto che sia disapplicata la predetta normativa regionale o, in subordine, che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale delle citate norme previa valutazione della non manifesta infondatezza della questione.

19. Con il secondo motivo la Regione Abruzzo denunzia la violazione e falsa applicazione degli art. 43 della Legge regionale Abruzzo n.6 del 2005, come modificato dall’art. 1, 2° comma, Legge regionale Abruzzo n.16 del 2008, criticando la sentenza impugnata per aver legittimato, con la sua interpretazione, un allineamento dinamico verso l’alto della voce retributiva.

20. Con l’ultimo motivo di ricorso la Regione denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., sostenendo che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto corretta la condanna generica pronunciata dal giudice di primo grado sebbene fosse stata chiesta una condanna specifica così restando irrisolto ogni problema connesso alla quantificazione delle somme chieste.

21. Dopo la proposizione del ricorso per cassazione, la Corte costituzionale, con sentenza 9 luglio 2014, n. 211, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme su cui si fonda la domanda: art. 43 della l.r. Abruzzo 8 febbraio 2005 n. 6 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2005 e pluriennale 2005-2007 della Legge Regione Abruzzo - Legge finanziaria regionale 2005), come sostituito dall’art. 1, comma 2, della l.r. Abruzzo 21 novembre 2008, n. 16 (Provvedimenti urgenti ed indifferibili).

22. Investita dal Tribunale di Teramo della questione di legittimità costituzionale di tali norme in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera 1), della Costituzione, la Corte costituzionale ha ricordato che la disciplina del trattamento economico dei dipendenti regionali rientra nella materia dell'ordinamento civile che appartiene alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Di conseguenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 43 della predetta l.r. Abruzzo 8 febbraio 2005 n. 6 come sostituito dall’art. 1, comma 2, della l.r. Abruzzo 21 novembre 2008 n. 16 nella parte in cui introduce il comma 2-bis nell'art. Legge della l.r. Abruzzo 13 ottobre 1998 n. 118 (Riconoscimento agli effetti economici della anzianità di servizio prestato presso lo Stato, Enti Pubblici, Enti Locali e Regioni, nei confronti del personale inquadrato nel ruolo regionale a seguito di pubblici concorsi ed estensione dei benefici previsti dalla L. n. 144 del 1989 al personale ex L. n. 285 del 1977).

23. A fondamento di questa conclusione, la Corte rileva l’art. 43 della citata l.r. n. 6 del 2005, nel disciplinare la retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti regionali, allineandone l’ammontare a quello percepito dai dipendenti che, provenendo da altre amministrazioni, sono transitati nei ruoli regionali, incide sul trattamento economico dei dipendenti regionali e, quindi, eccede dall’ambito di competenza riservato al legislatore regionale invadendo la materia dell’ordinamento civile, riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato".

24. Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la parte controricorrente sostiene che tale sentenza non potrebbe essere applicata alla fattispecie in esame atteso che la Regione Abruzzo, sia in appello che oggi davanti a questa Corte, ha chiesto solo una diversa interpretazione del dettato normativo circa i criteri di quantificazione del calcolo della r.i.a. e non ha riproposto nessuna delle eccezioni di incostituzionalità per violazione degli artt. 3, 97, 81 comma 4 e 117 Cost. disattese dal Tribunale, ritenendo così sostanzialmente pacifico il diritto alla perequazione della r.i.a. e contestandone esclusivamente il criterio di calcolo.

25. In sostanza su tale diritto si sarebbe formato un giudicato che precluderebbe l’applicazione della sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità della norma.

26. Tale ricostruzione non è condivisibile. Va rammentato in proposito che il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia e siano tali da integrare una decisione indipendente (cfr. Cass. n. 6304 del 2014). Manca la suddetta autonomia non solo nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrono a formare un capo unico della decisione (cfr. Cass. n. 4732 del 2012; v. anche Cass. 19345 del 2011 e 22409 del 2008).

27. La circostanza che con l’appello siano stati contestati i criteri di quantificazione della r.i.a., allora, non determina il passaggio in giudicato del diritto alla riliquidazione, né tanto meno una forma di acquiescenza da parte della Regione. Il diritto alla riliquidazione della r.i.a., infatti, in tanto sussiste in quanto concretamente si applichino i criteri di quantificazione individuati dalla disciplina dichiarata incostituzionale.

Sussistenza del diritto e criteri di quantificazione sono indissolubilmente legati tra loro.

29. Questo indissolubile legame comporta che l’appello, anche se mirato contro i criteri di quantificazione, ha determinato una situazione di fluidità inibendo il formarsi del giudicato sulla sussistenza del diritto. Parimenti esso comporta l’incompatibilità dell’appello con ogni forma di acquiescenza da parte della Regione, escludendo, in particolare, la qualificabilità della situazione processuale determinatasi come appello parziale implicante l’acquiescenza in ordine alle parti della sentenza non specificamente impugnate.

30. Il diritto alla riliquidazione della r.i.a. (bene della vita azionato in giudizio) si realizza mediante i criteri di quantificazione, oggetto di censura in appello, di cui alla disciplina dichiarata incostituzionale, e viene meno a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, senza che possa ritenersi formato un giudicato sul punto.

31. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la controversia può essere decisa nel merito, ai sensi del secondo comma dell’art. 384 c.p.c.: la domanda originaria deve essere rigettata, perché il diritto desumibile dalla normativa regionale è venuto meno, con efficacia "ex tunc", a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale normativa.

32. Poiché l’intervento della Corte costituzionale è successivo al deposito del ricorso per cassazione devono ritenersi sussistenti le ragioni di cui all’art. 92, secondo comma, c.p.c. per compensare tra le parti le spese dell’intero processo.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa tra le parti le spese dell’intero processo.