Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 23 luglio 2015, n. 32355

Inps - Omesso versamento delle ritenute previdenziali - Reato di natura istantanea - Consumazione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 3 giugno 2014 la Corte d'appello di Brescia ha respinto l'appello proposto da B.P. avverso sentenza dell’8 novembre 2013 con cui il Tribunale di Brescia l’aveva condannata alla pena di due mesi di reclusione e € 200 di multa per il reato di cui agli articoli 81 cpv. c.p. e 2, comma 1 bis, l. 638/1983, per avere omesso come datore di lavoro di versare all'Inps le ritenute previdenziali ed assistenziali relative ai suoi dipendenti per i periodi da ottobre a dicembre 2007, per un importo complessivo di € 4520.

2. Ha presentato ricorso l'imputata, sulla base di tre motivi: il primo motivo denuncia violazione della I. 67/2014, non essendo il fatto più previsto come reato, e invoca altresì la sentenza 139/2014 della Corte Costituzionale; il secondo motivo denuncia violazione di legge quanto alla causa di non punibilità di cui all'articolo 2 l. 638/1983, e il terzo motivo (erroneamente rubricato anch'esso come secondo) lamenta vizio motivazionale quanto all'elemento soggettivo del reato.

Con memoria del 2 luglio 2015 è stata altresì eccepita la pretesa intervenuta prescrizione di due delle tre condotte criminose che si sarebbe maturata tra il deposito del ricorso e l'udienza.

 

Considerato in diritto

 

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

3.1 II primo motivo adduce che il fatto contestato non è previsto dalla legge come reato, e ciò "alla luce dell'apprezzamento sistematico e congiunto della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale" - in particolare, viene citata la sentenza 19 maggio 2014 n. 139 che concerne questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1 bis, d.l. 463/1983, convertito in l. 638/1983, e che ha "richiamato il principio generale di necessaria offensività della condotta" - , ma altresì in conseguenza dell'articolo 2 I. 67/2014 che delega il governo a depenalizzare in illecito amministrativo il reato de quo se l'omesso versamento non eccede il limite complessivo di € 10.000 annui: e tale legge non sarebbe meramente formale, bensì "una fonte direttamente produttiva di norme giuridiche".

Per quanto concerne la sentenza della Consulta, è sufficiente rilevare che non ha dichiarato la illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui i versamenti omessi non raggiungono una determinata soglia; d'altronde, l'importo nel caso di specie non versato (€ 4520) non può definirsi assolutamente minimale.

In secondo luogo, poi, come si è visto si sostiene che il reato contestato sia già stato depenalizzato dall'articolo 2 I. 28 aprile 2014 n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, che è in vigore dal 17 maggio 2014 Ciò comporta, tuttavia, un travisamento del reale dettato normativo.

Infatti, l'articolo 2 della citata legge, al primo comma, stabilisce: "Il Governo è delegato ad adottare, entro i termini e con le procedure di cui ai commi 4 e 5, uno o più decreti legislativi per la riforma della disciplina sanzionatola dei reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative o civili, in ordine alle fattispecie e secondo i principi e criteri direttivi specificati nei commi 2 e 3". E al secondo comma, lettera c), per il reato in questione i principi e criteri direttivi sono indicati nella sua trasformazione in illecito amministrativo "purché l'omesso versamento non ecceda il limite complessivo di 10.000 euro annui e preservando comunque il principio per cui il datore di lavoro non risponde a titolo di illecito amministrativo, se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione". Il quarto comma, poi, determina il termine per l'adozione dei decreti legislativi in 18 mesi dall'entrata in vigore della legge, e disciplina la procedura a essi attinente; il quinto comma, infine, stabilisce che entro 18 mesi dall'entrata in vigore dell'ultimo di tali decreti legislativi possono essere emanati decreti correttivi ed integrativi.

E più che evidente, dunque, che la volontà del legislatore non è da intendersi come immediata depenalizzazione del reato di cui si tratta, bensì come conferimento al governo di un potere legislativo di cui regola la durata e le modalità di esercizio, nonché, in certa misura, lo stesso contenuto. Non essendo stato ancora emesso il decreto legislativo riguardante il reato in questione, non è pertanto configurabile allo stato la sua depenalizzazione. Analogamente riguardo a un altro dei reati su cui è stata conferita dalla stessa legge la delega di depenalizzazione al governo, del resto, si è già pronunciata questa Suprema Corte (Cass. sez. I, 19 settembre 2014 n. 44977: "La contravvenzione prevista dall'art. 10 bis del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che punisce l'ingresso ed il soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non può ritenersi abrogata per effetto diretto della legge 28 aprile 2014 n. 67, posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che, pertanto, quest'ultima, fino alla emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerata violazione amministrativa.").

Il primo motivo del ricorso, in conclusione, risulta privo di consistenza.

3.2 II secondo motivo ripropone una doglianza che era già stata prospettata al giudice d'appello, come riconosce la stessa ricorrente. In particolare, questa osserva che, "nei precedenti gradi di giudizio, si era rilevato che la comunicazione dell'INPS era stata notificata all'imputata in epoca nella quale la ricorrente non rivestiva più la qualifica né di amministratore unico, né di socio" della S.r.l. in questione. Pur essendo il delitto "un reato omissivo di natura istantanea che si perfeziona al momento della scadenza prevista per il versamento delle ritenute previdenziali", il tempestivo adempimento a seguito della comunicazione dell'Inps costituisce causa di non punibilità per il "datore di lavoro" e questo "non può che intendersi il datore di lavoro a tempo della notifica". Ma nel caso di specie l'Inps non avrebbe mai messo il "datore di lavoro" subentrato alla ricorrente nelle condizioni di conoscere l'omesso versamento e quindi di farvi tempestivamente fronte; peraltro "difetta anche la prova di un possibile versamento operato dal nuovo amministratore".

Premesso che quest'ultimo è un asserto meramente fattuale, deve darsi atto che la corte territoriale ha confutato specificamente il motivo in punto di diritto, rilevando che, pur essendo stata notificata dall’Inps la comunicazione dell'accertamento della violazione alla imputata quando questa non era più amministratore della S.r.l. e non poteva pertanto "versare le somme dovute utilizzando le disponibilità economiche della società", "le violazioni contestate si riferiscono, tuttavia, a periodi in cui la 3 era ancora amministratrice della società e sono, pertanto, alla stessa imputabili". Come si è visto, nel ricorso non vi è una specifica argomentazione che riesca a confliggere con questo rilievo, ammettendo anzi la stessa ricorrente che il delitto in questione è "un reato omissivo di natura istantanea che si perfeziona al momento della scadenza prevista per il versamento delle ritenute previdenziali", passo, questo, già integralmente citato. E ciò rende privo di consistenza il motivo, sia per la sua aspecificità in rapporto alla motivazione della sentenza impugnata, che lo conduce alla inammissibilità (cfr. Cass. sez. VI, 12 febbraio 2014 n. 13449; Cass. sez. II, 21 settembre 2012 n. 36406; Cass. sez. IV, 9 febbraio 2012 n. 18826; Cass. sez. IV, 4 febbraio 2010 n. 9188, in motivazione; Cass. sez. I, ord. 20 gennaio 2005 n. 4521; Cass. sez. I, 30 settembre 2004 n. 39598; Cass. sez. IV, 29 marzo 2000 n. 5191; Cass. sez. IV, 18 settembre 1997-13 gennaio 1998 n 256), sia per quanto riconosce la stessa ricorrente sulla natura del reato.

Invero, il reato de quo non si consuma quando non è versato il dovuto entro il termine di grazia, bensì il giorno 16 del mese successivo a quello in cui è stata operata la ritenuta, quale reato omissivo istantaneo, in tal senso essendosi ormai consolidata la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. sez. III, 21 febbraio 2012 n. 10974; Cass. sez. III, 14 dicembre 2010- 12 gennaio 2011 n. 615; Cass. sez. IlI, 16 aprile 2009 n. 20251); chiaramente superata è quindi Cass. sez. Ili, 1 febbraio 2005 n. 10469, che identificava il momento consumativo nella scadenza del termine di grazia dei tre mesi dalla conoscenza del debito contributivo ex articolo 2, comma 1 bis, I. 638/1983, versamento che, se effettuato, integrerebbe invece solo una causa di non punibilità, senza incidere sul momento consumativo del reato stesso.

D'altronde, non può avere alcun rilievo giuridico il fatto che colui che ha commesso il reato, non essendo più datore di lavoro, non abbia più la disponibilità del patrimonio della società di cui i lavoratori sono dipendenti, potendo ovviamente operare il versamento con il proprio e non essendo evincibile dalla norma alcuna "garanzia" che il patrimonio della società debba costituire a favore di chi ha in precedenza ricoperto incarichi sociali.

3.3 infine, il terzo motivo lamenta vizio motivazionale quanto all'elemento soggettivo del reato. Il motivo si fonda su un preteso erroneo della corte territoriale di irrilevanza della situazione economica dell'azienda nonché delle difficoltà personali legate all'inesperienza amministrativa della ricorrente, che avrebbe avuto volontà di versare, e quindi mancava di dolo: la sua intenzione di adempiere sarebbe stata provata proprio anche dalla cessione ad altro più esperto imprenditore della carica sociale avendo l'imputata riconosciuto "la propria incapacità di fronteggiare situazioni debitorie".

Il motivo, come già emerge da quanto appena illustrato, in realtà mette in discussione direttamente gli elementi fattuali, proponendone una versione alternativa ai giudice di legittimità, la cui verifica è preclusa alla sua giurisdizione. Dalla motivazione della sentenza impugnata, d'altronde, non emerge alcun vizio, se non altro per avere la corte rilevato "come il riferimento alle dedotte difficoltà economiche, su cui si è soffermata la difesa nei motivi d'appello, è rimasto assolutamente generico, atteso che non sono stati prodotti i bilanci mentre la società a distanza di alcuni anni non risulta fallita né in liquidazione volontaria". Nessuna contraddittorietà può ravvisarsi tra la sottolineatura dell'omessa produzione dei bilanci e le dichiarazioni spontanee della ricorrente per sostenere la situazione di decozione dell'azienda nel 2007, come invece adduce il motivo in esame: una cosa sono le dichiarazioni, evidentemente difensive, dell'imputata, e un'altra - che si colloca su un piano diverso, cioè costituisce un elemento oggettivo, onde non può entrare in contraddizione con prospettazioni soggettive, ovvero rese nel proprio interesse - la constatazione non solo dell'omessa produzione dei bilanci, ma anche del fatto che la società non manifestò successivamente alcun segno di decozione. Anche questo motivo, dunque, risulta privo di pregio.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza - il che impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione ad ogni effetto (in particolare, la presenza di cause di non punibilità, inclusa la estinzione per maturata prescrizione, ex articolo 129 c.p.p. non è valutabile qualora non sia stato instaurato validamente un ulteriore grado di cognizione, come insegna la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte: ex multis v. S.U. 22 novembre 2000 n. 32; S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21; S.U. 3 novembre 1998 n. 11493; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428; Cass. sez. Ili, 10 novembre 2009 n. 42839) -, con conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell'art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.