Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 16 luglio 2015, n. 14899

Lavoro - Contratti a termine - Trasformazione in tempo indeterminato - Intervalli lavorati e non lavorati - Retribuzione - Computo

 

1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:

<<Il Tribunale di Tempio, in parziale accoglimento della domanda proposta da R.F. nei confronti di M. S.p.A. e di M.F. S.p.A. (cui medio tempore era stato ceduto il ramo di azienda comprendente tutte le attività connesse al volo), accertava la nullità del termine apposto ai contratti stipulati dalla ricorrente con M. dal 2001 al 2009 e dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato sin dal primo contratto condannando dette società al pagamento di nove mensilità globali di fatto. Escludeva la sussistenza del diritto alle retribuzioni per i periodi non lavorati e non si pronunciava sulla domanda diretta ad ottenere la ricostruzione della carriera ed il pagamento delle conseguenti differenze retributive connesse all’anzianità man mano maturata durante i vati rapporti a termine, dunque in costanza di questi. Avverso tale decisione proponevano appello sia la F. sia M.F. S.p.A.; la Corte di appello di Cagliari - sez. distaccata di Sassari - respingeva entrambi i gravami. La Corte territoriale confermava la declaratoria di illegittimità del termine sin dal primo contratto ("esattamente dall’ottobre 2000"). Riteneva inaccoglibile l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso. Respingeva la richiesta di corresponsione delle retribuzioni in relazione agli intervalli non lavorati sul presupposto che le reciproche obbligazioni fossero state sospese. Evidenziava, con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle maggiorazioni retributive e contributive derivanti dall’anzianità lavorativa per tutti i periodi dei contratti a termine lavorati e non lavorati, che era intervenuta rinuncia a tale punto dell’appello da parte del procuratore della parte.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso R.F. affidato a sei motivi.

M.F. S.p.A. resiste con controricorso e formula ricorso incidentale (affidato a tre motivi) e ricorso incidentale condizionato (affidato ad un motivo).

Con il primo motivo di ricorso principale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 84, 99, 100 e 306 cod. proc. civ. e insufficienza e contraddittorietà della motivazione (art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ.). Si duole la ricorrente del fatto che l’intervenuto riconoscimento degli scatti di anzianità da parte della società (non retroattivamente e, dunque, solo per il futuro) fosse satisfattiva anche delle pretese della lavoratrice relative al periodo pregresso (differenze retributive conseguenti al riconoscimento dell’anzianità per i periodi lavorati). Evidenzia che, in ragione del non corretto significato attribuito dalla Corte territoriale alle dichiarazioni rese dal procuratore della parte all’udienza di discussione, la domanda intesa ad ottenere il riconoscimento delle suddette pretese, sulla quale non aveva inciso in alcun modo il comportamento dell’azienda, era rimasta priva di pronuncia.

Con il secondo motivo di ricorso principale è denunciata la falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, dell’art. 1, comma 13, della l. n. 92/2012 nonché violazione degli art. 5 della l. n. 230/1962 e 6 d.lgs. n. 368/2001, della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinate del 18/3/1999 contenuto in allegato alla direttiva del Consiglio delle Comunità Europee 1999/70/CE relative all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP e violazione dell’art. 3 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Rileva la ricorrente che la fondatezza della pretesa di cui al motivo che precede è in linea con il principio di parità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. Evidenzia che l’onnicomprensività dell’indennità di cui all’art. 32 della legge n. 183/2010, come pure interpretata dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, non può che riferirsi ai soli periodi non lavorati che vanno dalla scadenza del termine alla sentenza che ricostituisce il rapporto e non anche a quelli lavorati.

Con il terzo motivo di ricorso principale è denunciata l’omessa o insufficiente motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Si duole la ricorrente della pronuncia relativa al rigetto della domanda di corresponsione delle retribuzioni nei periodi lavorati in quanto la Corte territoriale non avrebbe chiarito perché le circostanze dedotte non fossero tali da integrare una pretesa cd una offerta delle prestazioni lavorative ed una costituzione in mora.

Con il quarto motivo di ricorso principale è denunciata la violazione degli artt. 167 e 416, comma 3, 115, 116, 245, cod. proc. civ., 102 disp. att. cod. proc. civ., 356, 420, 421 cod. proc. civ. (art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.) nonché degli artt. 1206, 1217, 2094, 2099, 1419 co. 2, cod. civ. in relazione agli artt. 1 e 2, legge n. 230/1962 e art. 1344 cod. civ.(art. 360, n. 3, cod. civ.). Lamenta la ricorrente il mancato rilievo attribuito dalla Corte territoriale alla circostanza che, con riguardo alla pretesa di ottenere il pagamento delle retribuzioni in relazione alla offerta delle prestazioni lavorative, la società si fosse limitata a dedurre che non vi era stata alcuna offerta formale senza contestare i fatti specificamente allegati e comunque la mancata ammissione delle prove richieste dalla lavoratrice.

Con il quinto motivo di ricorso principale è denunciata l’omessa motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Si duole la ricorrente del fatto che la Corte di appello non abbia considerato che nessuna costituzione in mora era necessaria.

Con il sesto motivo di ricorso principale e denunciata la violazione del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. e violazione degli artt. 112, 132 e 279 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ. ed all’art. 161 cod. proc. civ.. Si duole della conferma liquidazione delle competenze legali relative al giudizio di primo grado come operata dal Tribunale (complessivi euro 1.800,00 di cui euro 1.000,00 per onorari ed euro 800,00 per diritti) che aveva formato oggetto di specifico motivo di gravame ed in particolare della valutazione della controversia quale "controversia seriale".

Con il primo motivo di ricorso incidentale la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1372, co. 1, cod. civ.(art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.). Lamenta che la Corte di merito non abbia ritenuto comportamento concludente sufficiente a far ritenere integrata una risoluzione per mutuo consenso l’inerzia della lavoratrice a fronte di una reiterazione di contratti a termine.

Con il secondo e terzo motivo di ricorso incidentale la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., nullità della sentenza per contrasto tra dispositivo e motivazione (artt. 360, nn. 3, 4 e 5). Si duole del fatto che la Corte territoriale, pur avendo in motivazione accolto (sia pure in parte) i rilievi della società e così spostato all’ottobre del 2000 la decorrenza della operata conversione dei rapporti lavorativi in un unico rapporto abbia, poi, in dispositivo, rigettato totalmente l’appello di M.

Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, co. 5, della legge n. 183/2010, così come chiarito ed interpretato dall’art. 1, co. 13, della legge n. 92/2012 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Rileva che, nell’ipotesi di accoglimento del primo motivo di ricorso principale della lavoratrice, quest’ultima non trarrebbe alcuna utilità dalla pronuncia atteso che l’idennità determinata ai sensi dell’art. 32 citato avrebbe coperto ogni eventuale pretesa e differenza retributiva.

Per ragioni di ordine logico va preliminarmente esaminato il primo motivo di ricorso incidentale che è manifestamente infondato.

Nel giudizio instaurato a fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato per l’illegittima apposizione al - contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative

- una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. Si tratta di una valutazione di fatto che compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (Cass. n. 16932 del 4 agosto 2011; Cass. n. 23319 del 18 novembre 2010). La Corte di appello, con affermazione non specificamente contrastata dalla odierna ricorrente incidentale, ha rilevato che nessun momento di prolungata attività era dato ravvisare atteso che la F. aveva lavorato continuativamente, per M. a partire dal primo contratto. Dall’accertamento di fatto della Corte viene quindi esclusa in radice la stessa sussistenza di un periodo di prolungata attività che costituisce l’imprescindibile presupposto al quale le società ricorrenti collegano l’assunto della intervenuta risoluzione del rapporto. Né la conclusione può essere inficiata - contrariamente a quanto sostenuto dalla società dal minore termine biennale di prescrizione dei diritti derivanti dal contratto di lavoro del personale di volo previsto dall’art. 937 cod. nav.: infatti, trattandosi di termine inapplicabile ad un’azione di accertamento della nullità della clausola di durata (per sua natura imprescrittibile, come sopra detto), di per sé non è neppure significativo della volontà del lavoratore di non esercitarla.

Quanto ai motivi del ricorso principale, va innanzitutto ritenuta la manifesta fondatezza del primo (che determina l’assorbimento del secondo).

Risulta, infatti, che la lavoratrice aveva agito in giudizio per ottenere il riconoscimento della ricostruzione della carriera, anche ai fini previdenziali e di anzianità lavorativa e retributiva, e delle differenze retributive sia in relazione ai periodi lavorati sia in relazione agli intervalli tra un contratto e l’altro. Emerge, altresì, che uno specifico motivo di gravame aveva riguardato proprio l’omessa e/o del tutto carente pronuncia da parte del Tribunale in ordine alla suddetta richiesta (nella indicata duplice direzione). Nel corso del giudizio di appello il procuratore della lavoratrice aveva, quindi, dichiarato di rinunciare al motivo di appello relativo "agli scatti di anzianità già attribuiti" - cfr. pag. 5 del controricorso. Tale dichiarazione, qualificata dal riferimento ad una già avvenuta attribuzione (che, come si evince dalla stessa posizione difensiva della società tanto nel corso del giudizio di merito quanto nel presente di legittimità, non aveva affatto riguardato le pretese riferite ai periodi lavorati), poteva comportare una pronuncia di cessazione della materia del contendere solo nei limiti di tale attribuzione e non anche far ritenere che la lavoratrice avesse inteso rinunciare al motivo di ricorso avente ad oggetto il riconoscimento degli scatti di anzianità relativi ai periodi lavorati e le relative differenze retributive.

Quanto alla utilità che da una pronuncia di accoglimento del suddetto motivo potrebbe derivare alla ricorrente principale (ed esaminando, a tal fine, il ricorso incidentale condizionato formulato da Meridiana), va richiamato l’orientamento espresso da questa Corte nelle recenti pronunce nn. 2492, 2493, 2494 del 10 febbraio 2015; nn. 2343, 2344, 2345, 2346, 2347 del 9 febbraio 2015; nn. 2291, 2292, 2293, 2297, 2298, 2299, 2300, 2301 del 6 febbraio 2015; nn. 1940, 1941, 1942, 1943, 1944, 1945, 1946, 1947 del 3 febbraio 2015, nn. 552, 553, 554, 555, 556, 557, 559, 559, 560, 561, 562, 563 del 15 gennaio 2015; 262 del 12 gennaio 2015.

L’art. 32 della legge n. 183 del 2010 ha modificato il regime della tutela del lavoratore assunto con un contratto a termine illegittimo.

Il precedente assetto era così organizzato: nel caso in cui si accertasse l’illegittimità del termine, il giudice doveva ordinare la riammissione in servizio del lavoratore, con conseguente diritto a percepire le retribuzioni anche qualora il datore di lavoro non consentisse la ripresa del lavoro. Questa prima fondamentale conseguenza è rimasta immutata. Anche dopo la legge n. 183 del 2010 e la legge di interpretazione autentica, la sentenza che accerta l’illegittimità del termine converte il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato e dispone la riammissione del lavoratore in servizio. Da quel momento il lavoratore avrà diritto a percepire le retribuzioni tanto se il datore di lavoro adempie, quanto se non adempie (in questo secondo caso a titolo di risarcimento del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di assunzione: cfr. Cass. 11 aprile 2013, n. 8851; ma v. anche Corte cost. 30 luglio 2014, n. 226).

Con riferimento, invece, al periodo che precede la sentenza, il quadro è parzialmente cambiato.

Nel regime previgente mancava una norma che regolasse specificamente questo profilo e la regolamentazione venne delineata in base ai principi generali del diritto civile e del lavoro. Fondamentale fu la sentenza delle Sezioni unite 5 marzo 1991, n. 2334, che risolse il contrasto tra due orientamenti: quello che riteneva che al lavoratore spettassero tutte le retribuzioni pregresse e quello che invece riteneva che il lavoratore avesse diritto alle retribuzioni pregresse solo se e a decorrere dal momento in cui avesse messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative.

È bene ricordare che la diversità dei due orientamenti concerneva il diritto alla retribuzione per gli intervalli non lavorati tra un contratto a termine e l’altro, in caso di sequenza di contratti a termine, mentre nessuna delle sentenze in conflitto negava che spettasse la retribuzione per i periodi di lavoro effettuati nella sequenza di contratti a termine.

Le Sezioni unite ritennero che il problema concernente i periodi "non lavorati", non trovasse soluzione in una norma specifica, come invece avveniva nella materia affine ma non identica dei licenziamenti illegittimi con l’art. 18 St. lav., e dovesse quindi essere risolto in base ai principi generali dell’ordinamento. Affermarono che il principio regolatore della materia, data la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, fosse quello della corrispettività tra lavoro e retribuzione e che non potesse esservi retribuzione in assenza della prestazione lavorativa. Per questa ragione ritennero non fondato l’orientamento che riconosceva tutte le retribuzioni pregresse per i periodi non lavorati, ed invece fondato quello che le riconosceva, ma solo a condizione ed a far tempo da un eventuale atto di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore. Queste conclusioni hanno guidato la giurisprudenza dei decenni successivi.

Le Sezioni unite si espressero anche sui "periodi lavorati" e precisarono che l’unificazione del rapporto di lavoro "comporta, a prescindere dalle eventuali spettanze, nei limiti anzidetti, per gli intervalli non lavorati, un ricalcolo delle spettanze per i periodi lavorati una volta considerati inseriti nell’unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente applicazione degli istituti propri di questo quali, ad esempio, gli aumenti di anzianità, la misura del periodo di comporto, la misura del periodo di preavviso, e determina comunque sicuri vantaggi per il lavoratore quali l’acquisizione della corrispondente anzianità, quanto meno per sommatoria dei periodi lavorati".

Il quadro regolativo è cambiato con la legge n. 183 del 2010, ma come si vedrà, il cambiamento riguarda solo i periodi non lavorati.

L’art. 32, quinto comma, così si esprime: "nei casi di conversione del contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 cd un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604".

L’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, ha sancito che detta norma "si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostruzione del rapporto di lavoro".

Dalla norma si desume che l’indennità è volta al "risarcimento" del lavoratore. Quindi concerne un danno subito dal lavoratore e cioè il danno derivante dalla perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un danno da mancato lavoro.

La norma di interpretazione autentica afferma che l’indennità "ristora un pregiudizio" ribadendo, ancor più esplicitamente, che è correlata ad un danno, un pregiudizio, derivante dalla perdita del lavoro e che essa onnicomprensiva perché ristora per intero le "conseguenze" retributive e contributive di quel danno da mancato lavoro. Quindi tutti i danni sul piano retributivo e contributivo che sono conseguenza, cioè sono legati da un nesso di causalità con la perdita del lavoro.

Se l’indennità serve a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato lavoro è evidente che il legislatore considera solo i periodi di non lavoro ai fini di tale risarcimento. Ed infatti esclude dal computo il periodo sino alla scadenza del termine, che è periodo di lavoro, in cui il lavoratore è stato retribuito e quindi non ha subito, né può subire conseguenze negative sul piano retributivo o contributivo. In tale periodo la retribuzione è dovuta e detto periodo si computa ai fini degli effetti riflessi e dell’anzianità di servizio. L’anzianità di servizio maturata in questo periodo lavorato, vale a tutti gli effetti. Rileva persino per la quantificazione della indennità volta a risarcire il danno derivante dalla perdita del lavoro, perché è uno dei criteri indicati dall’art. 8 della legge 604 del 1966, richiamati dall’art. 32, quinto comma, della legge 183 del 2010.

Il problema oggetto della presente controversia deriva dal fatto che il datore di lavoro ha stipulato con il lavoratore non un unico contratto a termine, ma una serie di contratti a termine. Il legislatore non ha espressamente considerato questo caso, ma l’interpretazione logico sistematica della norma impone di ritenere che, se è estraneo al risarcimento il periodo del primo contratto a termine, lo saranno anche i periodi lavorati in successivi contratti a tempo determinato.

Sarebbe assurdo affermare che per questi periodi la retribuzione non spetti e sia assorbita nella indennità, ma è parimenti contrario alla logica della norma ritenere che questi periodi di lavoro è come se non fossero stati effettuati e non rilevino ai fini dell’anzianità di servizio e delle sue implicazioni economiche. Questi periodi non possono non avere lo stesso trattamento giuridico del periodo di lavoro per il primo contratto a termine in quanto, al pari del primo, sono estranei al danno determinato dal non lavoro, quindi estranei alla indennità prevista dal legislatore per risarcire le conseguenze retributive e contributive di quel pregiudizio. Il risarcimento riguarderà solo i periodi di "non lavoro". Solo per questi periodi vi è un danno da risarcire e un pregiudizio da ristorare.

Pertanto l’indennità prevista dall’art. 32, risarcisce il danno subito per il mancato lavoro e lo risarcisce in tutte le sue conseguenze retributive e contributive, in tal senso è onnicomprensiva. Mentre noti riguarda il periodo (in caso di un unico contratto a termine) o i periodi di lavoro (in caso di più contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa effettuata.

Questa ricostruzione è in continuità con quanto affermato nelle prime sentenze sull’art. 32, come interpretato dalla legge n. 92 del 2012.

In particolare, Cass. n. 15265 del 12 settembre 2012, nell’enucleare il principio di diritto parla di "indennità forfetizzata ed onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo considerato intermedio". Forfetizzazione dei danni determinatisi "nel" periodo intermedio, significa che l’indennizzo non incide sui diritti maturati in quel periodo nella parte del rapporto che non ha determinato danni: non tocca le retribuzioni per i periodi lavorati e gli effetti riflessi di tali retribuzioni, né tocca l’anzianità lavorativa maturata in tale o in tali periodi.

La medesima pronuncia afferma: "legittimamente la sentenza impugnata ha considerato nell’anzianità lavorativa e retributiva tutti i periodi effettivamente lavorati, da sommarsi a quelli successivi alla formale assunzione a tempo indeterminato, in ragione del principio ripetutamente affermato da questa Corte (Cass., sez. un., 5 marzo 1991, n. 2334 e succ.)". L’affermazione è netta ed è esplicito il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite che, come si è visto, affermò che nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di più contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione del termine, gli "intervalli non lavorati" fra l’uno e l’altro rapporto, in difetto di un obbligo del lavoratore di continuare ad effettuare la propria prestazione o di tenersi disponibile ad effettuarla, non implicano il diritto alla retribuzione ... e nemmeno sono computabili come periodi di servizio", mentre i "periodi lavorati" danno diritto alla retribuzione e sono rilevanti ai fini della maturazione degli scatti di anzianità. Quest’ultimo profilo dell’assetto dato dalle Sezioni unite del ‘91 alla materia - sottolinea la sentenza del 2012 - va oggi pienamente riaffermato non essendo stato scalfito minimamente dallo ius superveniens costituito dalla legge 183 del 2010.

Le più recenti Cass. 16 giugno 2014, n. 13630 e Cass. 17 giugno 2014, n. 13732 hanno fissato il seguente principio di diritto: "L’art. 32, quinto comma, della legge n. 183 del 2010 commisura l’indennità, dovuta nei casi di conversione, all’ultima retribuzione globale di fatto, così riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal proprio posto di lavoro nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito. L’espressione ‘onnicomprensiva’, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato".

In questo principio di diritto è detto chiaramente che l’indennizzo onnicomprensivo copre soltanto il danno derivante dall’allontanamento dal lavoro e quindi il danno subito per il "non lavoro" nel periodo o nei periodi "non lavorati". Il che ancora una volta conferma che i diritti per i periodi in cui si è prestato lavoro non vanno ricompresi nell’indennità risarcitoria perché non sono stati danneggiati, sono fuori dal perimetro del danno e quindi del risarcimento.

Quanto alle conseguenze giuridiche di tale assetto sull’anzianità, la Corte in queste ultime sentenze aggiunge, e non potrebbe essere più chiara, che: "L’espressione ‘onnicomprensiva’, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo determinato".

In conclusione, nonostante i problemi lessicali derivanti dal fatto che probabilmente il legislatore ha configurato l’indennità avendo presente il caso, statisticamente più frequente, della stipulazione di un unico contratto a termine, deve affermarsi che l’indennità prevista dall’art. 32 legge 183 del 2010 ristora in generale il danno subito dal lavoratore per l’allontanamento dal lavoro, tanto se questo sia stato unico, quanto se sia stato ripetuto. Per tali periodi di non lavoro, mentre prima il lavoratore aveva diritto ad essere comunque retribuito a decorrere dalla messa a disposizione delle energie lavorative pur non avendo lavorato, oggi è prevista solo l’indennità da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità.

Al contrario, per il periodo di lavoro (o i periodi di lavoro, in caso di sequenza di contratti) il lavoratore ha diritto ad essere retribuito ed ha diritto a che tale periodo o tali periodi siano computati ai fini della anzianità di servizio e, quindi, della maturazione degli scatti di anzianità.

Questa interpretazione del quinto comma dell’art. 32 della l. n. 183 del 2010 è la più coerente sul piano logico sistematico. Si coordina con i tratti del sistema delineato dalle Sezioni unite che, come si è visto e come hanno sottolineato le decisioni del 2012, sotto questo profilo rimangono fermi, ed è in continuità con i primi interventi di questa Corte successivi alla modifica legislativa. È coerente con i principi espressi dall'art. 5 della legge n. 230 del 1962 e dall’art. 6 del decreto legislativo n. 368 del 2001, nonché con i principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea: in particolare con il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, anche e specificamente in ordine all’anzianità di servizio, affermato con la Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.

Le suddette considerazioni e la richiamata natura onnicomprensiva dell’indennità ex art. 32, co. 5, della legge n. 183/2010, che copre le pretese relative agli intervalli non lavorati, consentono di ritenere anche la manifesta infondatezza del terzo, quarto e quinto motivo del ricorso principale.

Va anche ritenuta la manifesta infondatezza del sesto motivo di ricorso principale.

La parte che censuri la sentenza di primo grado, lamentando una liquidazione inferiore al dovuto ed al di sotto dei minimi in relazione alla natura e valore della causa ha l’onere di fornire al giudice di appello gli elementi essenziali per la determinazione del compenso spettante al professionista, indicando, in maniera specifica ed analitica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado (solo in presenza della quale il giudice non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata). In mancanza delle suddette indicazioni - cui la parte non può ovviare ex post con la riproduzione in sede di ricorso per cassazione della nota spese) è da presumere che la liquidazione sia avvenuta con riferimento a quel che risulta dagli atti, quanto alla corrispondenza fra l’attività svolta dal difensore e la somma spettante a titolo di spese, diritti ed onorari (cfr. Cass. 9 luglio 2009, n. 16149; si vedano anche Cass. 27 marzo 2013, n. 7654; Cass. 4 luglio 2011, n. 14542; Cass. 9 luglio 2009, n. 16149; Cass. 19 giugno 2009, n. 14455).

Nella specie, dal motivo di appello, come risultante dal ricorso per cassazione (pag. 25), si evince che il ricorrente si era lamentato della "incongruità" della liquidazione delle spese opponendo un preteso importo complessivo di diritti ed onorari redatto con la considerazione dei valori "medi" dello scaglione di riferimento (indicato in quello di valore compreso tra euro 51.700,00 ed euro 103.300,00). Non risulta, però, che l’appellante avesse precisato nel ricorso al giudice del gravame le voci singolarmente determinanti il suddetto importo complessivo né invero risulta se e quando la relativa nota spese fosse stata sottoposta al giudice di primo grado. Neppure, invero, era stata espressamente dedotta, in sede di appello, una liquidazione degli onorari in misura inferiore ai minimi delle tariffe professionali cosi come innanzi al giudice di appello non era stata specificamente censurata la determinazione quantitativa dei diritti e degli onorari con riferimento a tutti i parametri tariffari rilevanti. Il devolutum, dunque, era stato circoscritto alla sola "incongruità" della liquidazione (tanto dei diritti quanto degli onorari) senza che il giudice di appello fosse messo in condizione di rilevare l’eventuale specifico errore. Anche in questa sede di legittimità (ove per la prima volta la ricorrente si duole di una liquidazione al di sotto dei minimi di cui alla tariffe professionali ratione temporis vigenti) è mancato ogni elemento per valutare l’espletamento di determinate attività difensive svolte a favore della parte, nonché per l’individuazione dell’esatto scaglione tariffario di riferimento in ragione del valore complessivo della lite sulla base del contenuto effettivo della decisione (criterio del "decisum"). Tali considerazioni, unitamente al rilievo che la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate (cfr. in tal senso Cass. 23 maggio 2002, n. 7527; Cass. 22 giugno 2004, n. 11583; Cass. 11 gennaio 2006, n. 270), precludono a questa Corte una positiva delibazione della doglianza.

Da ultimo vanno ritenuti manifestamente fondati il secondo e terzo motivo di ricorso incidentale della società.

Si osserva innanzitutto che questa Corte già con la decisione n. 13325 del 21 giugno 2005 (seguita da successive conformi tra cui la più recente Cass. n. 10747 del 27 giugno 2012) ha ritenuto che nell’ipotesi in cui vi sia, come nella odierna fattispecie, insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo e la sentenza sia ancora impugnabile, prospettandosi la possibilità non tanto della sentenza inesistente (che radicherebbe nell’attore l’interesse all’impugnazione), quanto del passaggio in giudicato della pronunzia sulla base del dispositivo, interessata ad impugnare la decisione è unicamente la parte la cui domanda sia stata rigettata.

Ciò posto è di tutta evidenza che, nel caso in esame, la statuizione contenuta nel dispositivo di rigetto integrale dell’appello proposto da M. S.p.A. e MF S.p.A. (con conseguente conferma della pronuncia di primo grado anche nella parte relativa ad una indicazione della nullità del termine "a far data dall’11/8/2000") sia assolutamente difforme ed incoerente rispetto a quanto affermato nella motivazione in ordine ad uno spostamento della decorrenza del rapporto di lavoro convertito a tempo indeterminato dall’1/8/2000 all’1/10/2000 (spostamento che, come si rileva dalla stessa sentenza, era corrispondente ad uno specifico rilievo formulato, sul punto, dalle suddette società).

In conclusione, si propone l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale (ed il rigetto del ricorso incidentale condizionato) e del secondo e terzo motivo del ricorso incidentale, l’assorbimento del secondo motivo di ricorso principale ed il rigetto degli altri motivi di ricorso principale nonché del primo motivo del ricorso incidentale, la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altro giudice, il tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.

2 - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. con la quale le società insistono perché venga rimessa alle Sezioni Unite di questa Corte la questione relativa "all’ambito di operatività ed alla corretta lettura dell’art. 32, 5° comma, della legge n. 183/2010, per come chiarito ed interpretato dall’art. 1,13° comma, della legge n. 92/2012", sulla base di un evidenziato contrasto tra decisioni delle sezioni semplici.

Non si ravvisa, infatti, alcuna opportunità di rimettere gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, atteso che non ricorrono i presupposti per tale rimessione, a fini di nomofilachia.

L’orientamento giurisprudenziale espresso nei termini esposti è in continuità, come già detto nella relazione che precede, con Cass. 15265 del 2012 (richiamante i principi già affermati da Cass., sez. un., 5 marzo 1991, n. 2334 che ha delineato i tratti del sistema risarcitorio) ed altre decisioni coeve.

Quanto alle decisioni invocate dalla società (Cass. n. 13630/2014 e Cass. n. 13732/2014) nelle quali, secondo l’opzione interpretativa espressa in memoria, sarebbe stato affermato un principio di diritto che non potrebbe che avere "un unico ed inequivocabilmente significato e cioè che gli scatti di anzianità, eventualmente maturati nel periodo cosiddetto intermedio, non sono dovuti, restando assorbiti nell’indennità risarcitoria", è sufficiente ancora richiamare il principio di diritto affermato anche in tali sentenze, del seguente tenore: "La L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 commisura l’indennità, dovuta nei casi di conversione del contratto a tempo indeterminato, all’ultima retribuzione globale di fatto, così riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori), per essere stato allontanato dal proprio posto nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito. L’espressione ‘onnicomprensiva', adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto a detto danno e non a quanto spetti al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato".

In definitiva, come già affermato da Cass. nn. 13630 e 13732 del 2014, cui hanno dato continuità, da ultimo, Cass. n. 262/2015 e numerose decisioni coeve conformi, l’indennità prevista dall’art. 32, risarcisce il danno subito per il mancato lavoro e lo risarcisce in tutte le sue conseguenze retributive e contributive, in tal senso è onnicomprensiva. Mentre non riguarda il periodo (in caso di un unico contratto a termine) o i periodi di lavoro (in caso di più contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa effettuata.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.

3 - Conseguentemente, vanno accolti il primo motivo del ricorso principale (con rigetto del ricorso incidentale condizionato) e il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale, va dichiarato assorbito il secondo motivo del ricorso principale e rigettati gli altri motivi del medesimo ricorso principale nonché il primo motivo del ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità alla Corte di appello di Cagliari.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo del ricorso principale (e rigetta il ricorso incidentale condizionato) e il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale; dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso principale e rigetta gli altri motivi del medesimo ricorso principale nonché il primo motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità alla Corte di appello di Cagliari.