Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 luglio 2015, n. 14446

Rapporto di lavoro - Licenziamento - Funzionario di banca - Regali di valore da parte dei clienti - Condotta contraria all'etica e alla buona fede

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 2 luglio 2014 la Corte d'Appello di Roma confermava la decisione con cui il Tribunale di Roma, in sede di opposizione all'ordinanza emessa nella fase sommaria del giudizio introdotto con ricorso ex art. 1, comma 48, l. n. 92/2012, aveva rigettato la domanda proposta da M.S. avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla Banca N., sua datrice di lavoro, per aver ricevuto regali di valore consistente, in contrasto tanto con le disposizioni aziendali di cui alla Policy n. 13 del 24.11.2010 quanto con le regole di correttezza e buona fede, poi ulteriormente violate con il rendere, in sede di giustificazioni, dichiarazioni mendaci.

La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto, al pari del giudice dell’opposizione, accertata la conoscibilità da parte dello S. e, comunque, non impugnato il rilievo fondante la diversa ratio decidendi su cui il giudice dell’opposizione basava la decisione sul punto, dato dall’irrilevanza della non inclusione della mancanza nel codice disciplinare, dovendosi ritenere la condotta addebitata contraria all’etica comune e concretante la violazione dei doveri accessori, complementari e strumentali al compimento della prestazione principale, tra i quali quelli nascenti dagli obblighi di fedeltà e diligenza, tardiva la contestazione della violazione del principio di immutabilità dell’addebito, inconsistenti le giustificazioni addotte a fronte della contestata mancanza concernente l’aver taciuto il ricevimento di ulteriori regalie, generica la deduzione relativa al carattere discriminatorio del recesso.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la S., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la B. Entrambi le parti hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

 

L’impugnazione formulata dal ricorrente si incentra, quanto ai primi tre motivi, nella censura sostanzialmente unitaria, sebbene scomposta in relazione alle singole proposizioni in base alle quali la Corte territoriale ha motivato il proprio convincimento, intesa a imputare alla Corte stessa la violazione del principio "nulla poena sine lege", concretantesi, con riguardo al procedimento disciplinare, nell’onere per il datore di rendere notale condotte assunte come contrarie alla disciplina aziendale, di specificare le sanzioni che vi riconnette e di farlo attraverso l’affissione del codice disciplinare così predisposto in luogo accessibile ai lavoratori perché possa derivarne la presunzione di conoscenza e, quindi la punibilità delle medesime.

In effetti è sempre l’erronea applicazione del ricordato principio ad essere lamentata dal ricorrente, con il primo motivo, con il quale denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 l. n. 300/1970, in relazione all’omessa pubblicità nelle forme di legge di precetti rilevanti sul piano disciplinare recati dal codice di comportamento imposto dalla Banca datrice al proprio personale; con il secondo motivo, in relazione alla medesima omissione, questa volta tuttavia riferita alla medesima sanzione che la Banca stessa intendeva ricollegare alle medesime norme di comportamento; con il terzo motivo, inteso a denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119, in relazione alla ritenuta riconducibilità delle stesse norme a quella nozione di "minimo etico" tale da indurre a ritenere superflua ogni forma di pubblicità e ciò a motivo dell’inconfigurabilità in relazione alle norme in questione ed in particolare alla condotta addebitata, data nella specie dall’accettazione da parte del dipendente di regalie provenienti da soggetti con i quali intratteneva rapporti di ufficio, di una "communis opinio" e di una prassi sanzionatoria alla cui stregua il lavoratore avrebbe potuto prefigurarsi la rilevanza disciplinare di quella condotta e, per di più, in termini tali per cui ne risultasse percepibile la sussumibilità nella fattispecie normativa della giusta causa di recesso, così da legittimare l’irrogazione della massima sanzione del licenziamento senza preavviso.

La censura si rivela nel suo complesso infondata quand’anche non si voglia ritenere inammissibile in relazione al rilievo espresso dalla Corte territoriale già in relazione all’impugnazione comune svolta dal ricorrente in sede di gravame relativamente all’autonoma ratio decidendi che sosteneva la sentenza di prime cure, data appunto dalla ritenuta conoscibilità della rilevanza disciplinare della condotta, affermata sussistente a prescindere dall’osservanza dell’onere della pubblicità, in ragione dell’effettiva sua riconducibilità alla nozione di "minimo etico".

La Corte territoriale, in relazione all’impugnazione da parte del ricorrente di quel capo di sentenza, affidata esclusivamente al rilievo per cui "la ricezione di regalie non è da percepire come condotta in sé contraria ai principi di erica e buona fede, dovendo la stessa essere contestualizzata e valutata in relazione alla complessa natura della prestazione lavorativa", aveva considerato sostanzialmente omessa l’impugnazione sulla questione, così che questa doveva ritenersi ormai coperta da giudicato, e ciò con statuizione qui non espressamente fatta oggetto di impugnazione.

In effetti, l’argomento di cui sopra, utilizzato dall'odierno ricorrente in sede di gravame e qui ribadito, si rivela inconsistente ed insuscettibile di smentire il convincimento del giudicante in ordine alla rilevanza nella specie della nozione di "minimo etico" ove, con il riferimento ad essa, si voglia intendere la possibilità per il lavoratore, non diversamente da ogni persona comune, di rappresentarsi la contrarietà al lecito come ai principi di correttezza e buona fede, di un dato comportamento, mentre risulta certamente ultroneo rispetto alla specifica quaestio iuris oggetto della statuizione resa in primo e secondo grado, laddove lo si voglia spingere oltre il mero profilo della conoscibilità a sostenere che la rilevanza della nozione di "minimo etico" debba esplicarsi in modo da determinare nel lavoratore la consapevolezza anche della misura della gravità della condotta e da riflettere una riprovevolezza sociale della condotta medesima tale da legittimarne la punibilità con la sanzione massima del licenziamento senza preavviso, finendo in tal caso l’argomento per involgere il diverso tema della proporzionalità della sanzione irrogata, come ammette lo stesso ricorrente laddove sostiene nel ricorso de quo come il terzo motivo di impugnazione si ponga come ponte verso il quarto e ultimo motivo.

Con esso, infatti, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., lamenta a carico della Corte territoriale la carenza della valutazione da questa operata in ordine alla legittimità della sanzione, appunto sotto il profilo della proporzionalità.

Il motivo è palesemente infondato atteso che i rilievi mossi, attinenti alla mancata considerazione dell’assenza di precedenti disciplinari, dell’inconfigurabilità di un danno neppure all’immagine della Banca datrice, alla minimizzazione, se non, come sembra leggersi tra le righe, alla metabolizzazione da parte della corte territoriale dei profili di discriminazione o pregiudizio che presenta, a detta del ricorrente, il licenziamento, stante il riconnettersi della sua vicenda personale al più ampio e clamoroso scandalo della malversazione, da parte del segretario amministrativo del partito della "Margherita", dei fondi rivenienti dal finanziamento pubblico ai partiti, trovano puntuale e compiuta risposta nella motivazione dell’impugnata sentenza, ma soprattutto sono superati dalle argomentazioni, qui neppure fatte oggetto di impugnazione, in base alle quali la Corte territoriale ha valutato l’idoneità della condotta a minare irrimediabilmente il vincolo fiduciario con la Banca datrice.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta, il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi oltre spese generali e altri accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.