Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 luglio 2015, n. 14273

Lavoro - Assunzione a tempo indeterminato - Licenziamento per giusta causa - demansionamento - Mobbing - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata in data 1 agosto 2012, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda proposta nei confronti della (...) da (...) assunto a tempo indeterminato quale "controller" presso il (...), volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro, ed aveva altresì respinto le domande con cui il lavoratore aveva lamentato il suo demansionamento e la condotta di mobbing posti in essere nei suoi confronti, condannando il (...) al pagamento della somma di € 9.234,01 per canoni relativi ad un appartamento concessogli in locazione dal datore di lavoro e per somme erroneamente corrispostegli a titolo di permessi.

Il (...) era stato licenziato a seguito della seguente contestazione disciplinare: "Lei dopo il novembre 2006 e tuttora rifiuta qualsiasi rapporto non solo di dipendenza gerarchica con la persona delegata dal Presidente della società, con la Direzione Amministrativa, ma anche di collaborazione e colleganza con la Direzione stessa e con il management dell’Albergo, rifiutando persino le informative di carattere generale quale quella del cambiamento dell’orario di mensa del 13.3.2007 e quella sulla destinazione del TFR del 15.3.2007; non si interessa alla contabilità analitica gestionale; non effettua alcun controllo sui costi, sui ricavati e sulle voci di spesa; omette ogni attività di raccolta di informazioni per le stime e le previsioni a breve e per rilevare e segnalare al Presidente e al Centro Contabile della società eventuali anomalie nell’amministrazione o scostamento di budget. Le contestiamo, inoltre, il rifiuto di sottoporre la richiesta di ferie presentata all'Ufficio del personale il 19.3.2007 alla firma della Direzione Amministrativa e l’assenza ingiustificata dal lavoro per il giorno 20.3.2007".

La Corte suddetta ha ritenuto giustificato il licenziamento ed infondate le pretese del dipendente relative alla dequalificazione e alla condotta di mobbing asseritamente poste in essere nei suoi confronti.

Ricorre per cassazione contro questa sentenza il sulla base di due motivi, illustrati da memoria. La società resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte di merito ritenuto che il ricorrente non avesse osservato gli ordini dei superiori gerarchici, rendendosi colpevole di insubordinazione, non considerando che, come era emerso dalla prova testimoniale, il medesimo era stato isolato nell’ambiente lavorativo sino al punto che non gli era stato più consentito di svolgere i propri compiti - elaborazione di dati a supporto delle scelte operative della Direzione - per mancata trasmissione di tali dati.

Si aggiunge che le dichiarazioni al riguardo rese dalla moglie del ricorrente non erano meno attendibili di quelle rese dagli altri testi, fra cui il direttore amministrativo della società, e che dal complesso della prova testimoniale non era emerso che il ricorrente si fosse sottratto alle disposizioni impartitegli.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 cod. civ., per non avere la sentenza impugnata considerato che la dignità personale e professionale del lavoratore è stata costantemente calpestata dal datore di lavoro, come era emerso dalle prova documentale e testimoniale.

Il ricorrente è stato infatti lasciato privo di una postazione di lavoro e di indicazioni sul lavoro e sulle mansioni da svolgere.

3. Il primo motivo non è fondato.

Il prestatore di lavoro, a norma dell’art. 2104 cod. civ., deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa e deve altresì osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte e la dottrina, l’obbligo della diligenza si sostanzia non solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico), ma anche nell’esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione.

L’obbligo di obbedienza, costituente un aspetto fondamentale della subordinazione, deriva invece dal diritto, riconosciuto contrattualmente al datore di lavoro, di determinare in concreto la destinazione delle energie lavorative che il prestatore è tenuto a fornire nonché di determinare le norme tecnico-organizzative alle quali il lavoratore deve attenersi per adempiere alla sua prestazione.

L’inosservanza di detti obblighi può assurgere a giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., qualora il fatto integri gli estremi di un notevole inadempimento ai doveri contrattuali. La nozione di giusta causa non può essere limitata all’ipotesi di rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma comprende necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.

Nella specie la Corte di merito, nel ritenere legittimo il licenziamento, ha accertato attraverso la prova documentale e testimoniale che il Damiano rifiutava qualsiasi rapporto di dipendenza gerarchica, nonostante che, con lettera del 2 novembre 2006, gli fosse stato comunicato che per tutti gli aspetti tecnici del suo lavoro, e per specifiche ragioni organizzative, avrebbe dovuto far riferimento al responsabile dell’intero settore amministrativo.

Dallo stesso contratto di assunzione risultava, secondo la Corte territoriale, che il (...) dipendeva direttamente dal presidente della società o da persona da lui delegata, onde il suo atteggiamento costituiva una condotta di insubordinazione.

Né, ad avviso della stessa Corte, il (...) collaborava con i suoi superiori, come è dimostrato dal fatto che, a fronte di una specifica richiesta, da parte del responsabile del settore amministrativo, di consegna di dati e fatture anteriori al suo insediamento, il (...) anziché ottemperare a tale richiesta e prestare una fattiva collaborazione, si è limitato a consegnare una scatola di documenti, condotta questa che oltre a denotare un certo spregio verso il superiore, dimostrava anche la volontà di sottrarsi allo svolgimento dei propri compiti.

Infine, ha concluso la Corte, il (...) si è rifiutato di sottoporre la richiesta di ferie di un giorno alla firma del direttore amministrativo, restando così ingiustificatamente assente dal lavoro.

Tutti questi elementi, valutati complessivamente, denotando un comportamento volutamente in contrasto con le direttive aziendali e di scarsa collaborazione, idoneo a far venir meno il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, hanno portato il giudice d’appello a ritenere giustificato il licenziamento.

A fronte di tutto quanto precede, il ricorrente propone una diversa lettura delle deposizioni testimoniali, assumendo che non sono state correttamente valutate le risultanze probatorie e contrapponendo alla valutazione del giudice di merito una propria valutazione.

Ma, in tale ottica, le censure mosse all’impugnata sentenza si risolvono in una richiesta di riesaminare e valutare il merito della causa, e cioè in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alla finalità del giudizio di cassazione.

Ed allora è bene ricordare che il ricorso per cassazione non introduce un terzo giudizio di merito tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia dei vizi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ.

In altre parole, non è consentito alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Nella fattispecie in esame la sentenza impugnata ha dato sufficientemente conto della decisione adottata, con una motivazione congrua, coerente e priva di vizi logico-giuridici.

4. Anche il secondo motivo è infondato.

La Corte di merito, nel respingere i motivi di gravame del (...), con i quali si era sostenuto che il medesimo era rimasto per parecchi mesi privo di una sedia o di una scrivania dove lavorare, che non aveva avuto un computer ed era stato messo "coattivamente" in ferie, ha affermato che tali censure non tenevano conto - come risultava provato - che il periodo iniziale del rapporto lavorativo con il ricorrente era coinciso con la fase di avvio dell’albergo (...) la cui apertura era slittata, costringendo tutti i dipendenti, non solo il (...) a soluzioni logistiche precarie e a periodi anche di stallo dell’attività lavorativa, peraltro retribuita.

In un primo tempo, ha aggiunto, il ricorrente è stato inviato presso le sedi di (....) usufruendo di taluni periodi di ferie. Successivamente, ha avuto un proprio ufficio, che ha condiviso con la moglie, dotato di computer.

In tale situazione, ad avviso della Corte territoriale, non poteva parlarsi di dequalificazione né, tanto meno, di una condotta di mobbing.

Il ricorrente, nell’impugnare questa statuizione, denunciando violazione di legge, ha ignorato del tutto le suddette argomentazioni, limitandosi ad affermare, senza confutare le ragioni poste alla base del decisum, di non condividerle, e ad osservare che era stata calpestata la dignità personale e professionale del dipendente, insistendo sul fatto che il medesimo era stato lasciato privo di una postazione di lavoro e pressoché privo di mansioni da svolgere.

La mancanza di specifiche censure comporta l'inammissibilità del ricorso, dovendo questo contenere, a norma dell’art. 371, in relazione all’art. 366 cod. proc. civ., i motivi per i quali si richiede la cassazione della sentenza, motivi che devono avere i caratteri della specificità e completezza, con la esposizione delle ragioni che illustrino in modo esauriente le dedotte violazioni.

In conclusioni il ricorso deve essere respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida, a favore della società resistente, in € 100,00 per esborsi ed € 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.