Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 maggio 2015, n. 9623

Rapporto di lavoro - Demansionamento - Mobbing - Necessità ai fini del danno - Non sussiste

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 1° settembre 2011, la Corte d’Appello di Catanzaro confermava la decisione con cui il Tribunale di Catanzaro, in accoglimento della domanda proposta da A.C. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, sua datrice di lavoro, riteneva, all’esito del confronto tra le mansioni proprie dell’inquadramento alla medesima spettante e quelle assegnate con gli ordini di servizio emanati dal 15.4.2002, sussistere il demansionamento lamentato nonché il diritto al risarcimento del danno dedotto, stante la sua prevedibilità, liquidato nelle sue componenti del danno biologico e del danno morale. Per la cassazione di tale decisione ricorre l’Agenzia delle Entrate affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la C.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, inteso a denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c, nonché il vizio di motivazione, la ricorrente lamenta l’erroneità della pronunzia della Corte territoriale, con riferimento, tuttavia, alla qualificazione della condotta illecita dell’Amministrazione oggetto del giudizio in termini di mobbing, qualificazione che, operata nella propria relazione dal CTU, la ricorrente assume recepita nell’impugnata sentenza in relazione al passo della motivazione, ove la Corte territoriale, nell’aderire alle conclusioni dei CTU, fa proprio, riportandone testualmente le espressioni, il rilievo secondo cui "La disamina del caso...mostra una convergenza di elementi...nei confronti della sussistenza di nesso di discendenza causale univoco e diretto dell'insorgenza del disturbo psicopatologico con la vicenda di mobbing che ha avuto idoneità lesiva", mentre il giudizio formulato dalla Corte medesima ed esposto in motivazione attiene univocamente alla verifica della ricorrenza del demansionamento specificatamente denunciato dalla lavoratrice. In sostanza, l’impugnazione è volta a censurare il preteso convincimento, che si assume maturato dalla Corte territoriale su di una assente e, comunque, carente base probatoria, circa la ricorrenza nella specie di una ipotesi di mobbing, quando l’accertamento condotto dalla Corte medesima, sulla base del corretto iter logico-giuridico che deve presiedere alla valutazione della congruità della mansioni svolte con quelle proprie dell'inquadramento posseduto, e sfociato nella valutazione della sussistenza a carico dell’Amministrazione dell'illecito denunciato, ha, in realtà, riguardato la violazione, nel senso dell’illegittima assegnazione a mansioni inferiori, del precetto di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001, inteso a sancire il diritto del dipendente pubblico all’adibizione "alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive"

E’ evidente lo sviamento del thema decidendum che la ricorrente volutamente o erroneamente induce, con lo sfruttare l’Indiretto e inappropriato emergere in causa del termine "mobbing" e valorizzarlo per ridurre la denunciata dequalificazione a mera compimento di quella più ampia fattispecie, componente in sé inidonea ad integrarne gli estremi.

Così chiaramente non è, la dequalificazione è in sé fatto illecito causativo di danno sicché l’accertamento della Corte territoriale in ordine alla sua ricorrenza e al nesso di causalità tra esso e la lesione di beni della vita costituzionalmente tutelati deve ritenersi ormai coperto dal giudicato per non essere stato fatto oggetto di specifica imputazione, con conseguente inammissibilità dell'ultroneo motivo qui formulato.

I due successivi motivi, con cui la ricorrente denuncia, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 e 1225 c.c., in una con il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 32 Cost., in combinato disposto con l’art. 2059 c.c., sono entrambi intesi a censurare la statuizione risarcitoria della Corte territoriale lamentando, da un lato, la carenza della motivazione in ordine alla ritenuta prevedibilità del danno, dall’altro, l'illegittimità della duplicazione delle voci risarcitorie in relazione all’attribuzione congiunta dei danno biologico e del danno morale.

Prendendo le mosse da quest’ultima censura se ne deve rilevare l’infondatezza per essere questa fondata sul rilievo rimasto privo di riscontro pei il quale il giudice di primo grado, diversamente dalia Corte d’Appello, avrebbe, in conformità all’orientamento espresso da questa Corte a sezioni unite con la decisione n. 11.11.2008 n. 26972, sommato le due voci di danno, quello biologico e quello morale, ad evitare ogni duplicazione del risarcimento. In realtà la statuizione risarcitoria del giudice di primo grado è stata pienamente confermata dalla Corte d’Appello, smentendosi cosi la diversità tra la prima e la seconda pronunzia surrettiziamente affermata dalla ricorrente, avendo entrambi i giudici di merito, senza discostarsi dall’orientamento di questa Corte, ritenuto rilevante ex se il danno morale soggettivo, inteso come "pecunia doloris", nel quadro di una adeguata personalizzazione del danno biologico.

Quanto alla prevedibilità del danno la sollevata censura relativa all’erroneità ed insufficienza della motivazione risulta viceversa infondata giacché appare corretto e congruo il rilievo della Corte territoriale per il quale mentre il danno morale è insito nell’illiceità della condotta, la conseguenza psicofisica di un trattamento arbitrario, tale da mortificare la professionalità della lavoratrice, appare di lapalissiana plausibilità e dunque prevedibilità.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente ai pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali e altri accessori di legge.